sabato 22 dicembre 2012

Middle-Earth Role Playing




E’ tempo di una nuova recensione vintage, e in omaggio al film de Lo Hobbit appena uscito, la scelta è ovviamente caduta sul Middle-Earth Role Playing (MERP), ovvero il primo gioco di ruolo dedicato all’universo fantasy creato da J.R.R. Tolkien. Tradotto in Italia dalla Stratelibri nel lontano 1991 con il nome di GiRSA (gioco di ruolo del Signore degli Anelli), questo gioco utilizza un sistema tabellare e percentuale molto simile a quello di Rolemaster, ma decisamente più facile da utilizzare. Impreziosito dai disegni di Paolo Parente, MERP ha conosciuto in Italia ben tre edizioni: le prime due hanno in copertina un’immagine della compagnia dell’anello, e differiscono tra di loro solo per l’assenza, nella seconda versione, delle avventure introduttive presenti invece sulla prima; la terza edizione ha in copertina il disegno dell’unico anello tratto da un gioco di carte collezionabili che faceva furore in quegli anni, e contiene diverse regole aggiuntive ed opzionali, ma nessuna avventura introduttiva. 

Il manuale si apre introducendo la nozione di gioco di ruolo, attraverso classici esempi e una breve avventura in solitario, sullo stile dei vecchi libri-game. I manuali odierni tendono a dare un po’ per scontato la definizione di gioco di ruolo, ma nel 1991 le cose andavano un po’ diversamente: i giochi di ruolo erano praticamente una novità, e ogni manuale si affannava a spiegare, nelle prime pagine, cosa fossero. 

Dopo un breve capitolo dedicato a spiegare quali sono i fattori base che caratterizzano il sistema di gioco (come le professioni, il livello e le abilità), MERP entra nel vivo con la creazione del personaggio. La prima cosa da fare è determinare il valore delle sei caratteristiche base (forza, agilità, costituzione, intelligenza, intuizione e prontezza) utilizzando il dado percentuale. Quindi si deve decidere la razza e la professione del personaggio: i giocatori possono scegliere fra nani, hobbit, uomini o elfi; addirittura, se il master lo consente, anche orchi e troll. Le professioni sono quelle tipiche di ogni gioco fantasy, come il guerriero, il ranger o il mago. La razza e la professione sono i fattori più importanti nel determinare lo sviluppo del personaggio. La razza fornisce determinati bonus alle caratteristiche, i gradi iniziali nelle abilità e i fondamentali punti background. Spendendo questi ultimi, un giocatore può migliorare subito le proprie caratteristiche, acquistare ulteriori gradi nelle abilità, iniziare il gioco con armi magiche oppure ottenere capacità speciali uniche. La professione, invece, determina quanti punti sviluppo il giocatore può spendere ad ogni livello per aumentare le abilità del personaggio. Le abilità sono raggruppate in categorie e la professione indica proprio quanti punti è possibile spendere in ognuna di essa. E’ anche possibile trasferire punti da una categoria all’altra: un mago che voglia sviluppare un minimo di addestramento nell’uso della spada, ad esempio, può prendere i punti delle sue abilità magiche e spostarli nella categoria delle armi. Questo trasferimento in genere ha un costo: per avere anche un solo punto in una categoria che non sia la specialità della propria professione, è necessario accumulare diversi punti dalle altre. La professione, dunque, favorisce lo sviluppo di certe abilità piuttosto di altre, ma non impedisce di poter comunque migliorarle tutte. Una volta spesi i punti sviluppo e registrati tutti i bonus della professione, il personaggio è pronto per giocare, e riceve immediatamente dell’equipaggiamento gratuito (un’armatura e qualche arma), nonché un po’ di monete per poterne acquistare altro.

Il manuale prosegue con un paio di capitoli dedicati al master, che contengono, tra le altre cose, indicazioni su come creare oggetti magici, regole su ferite e guarigione, tabelle per gli incontri nelle terre selvagge. Si arriva così al fondamentale capitolo sul combattimento. Una volta stabilito l’ordine di iniziativa, i giocatori possono far eseguire ai loro personaggi diverse azioni, come lanciare un incantesimo, attaccare o spostarsi alle spalle di un avversario. Il combattimento viene risolto così: l’attaccante lancia il dado percentuale e ci somma il suo bonus offensivo, ovvero il suo bonus di attacco con l’arma in questione. Il difensore fa’ lo stesso sommandovi il suo bonus difensivo, che dipende da fattori come l’agilità, l’utilizzo dello scudo e la scelta di riservare o meno parte del bonus offensivo per parare gli attacchi in mischia. Se il risultato finale dell’attaccante è maggiore, il suo colpo è andato a segno: la differenza fra i due tiri va incrociata su una tabella con il tipo di armatura indossata dal difensore. La tabella, che varia a seconda del tipo di arma, indica quanti danni subisce il difensore e se c’è la possibilità di un colpo critico, ovvero un attacco particolarmente ben riuscito. I colpi critici sono indicati dalle lettere dell’alfabeto, e vanno da A (il più debole) a E (il più letale). MERP utilizza numerose tabelle per i colpi critici, differenziate secondo il tipo di danno infitto (da taglio, da punta, da elettricità, etc.): se siete particolarmente fortunati potrete abbattere il vostro nemico in un colpo solo; in ogni caso gli procurerete danni ed effetti addizionali, come ossa rotte, emorragie o turni di stordimento.

Il sistema magico di MERP è identico a quello di Rolemaster e vede gli incantesimi ordinati in liste che hanno un denominatore comune, come ad esempio la lista della piromanzia, che contiene sortilegi che usano il fuoco, oppure la lista delle arti della guarigione, contenente incantesimi curativi. Ogni lista ha 10 incantesimi, ordinati secondo il loro livello di potenza; un personaggio può lanciare tutti gli incantesimi di una lista che conosce, il cui livello sia pari o inferiore al proprio. Per farlo, spende un numero di punti magia pari al livello dell’incantesimo; inoltre, esistono oggetti magici che aumentano il numero di incantesimi che un mago è in grado di lanciare, oppure che aumentano direttamente i suoi punti magia. Il manuale descrive ben 400 incantesimi, abbastanza simili a quelli di altri giochi fantasy: i maghi potranno scagliare palle di fuoco ai loro nemici mentre gli animisti (l’equivalente dei chierici di D&D) potranno prendersi cura dei loro compagni feriti. Mancano ovviamente incantesimi dagli effetti clamorosi come fermare il tempo o viaggiare in altre dimensioni, che sarebbero del tutto fuori luogo nell’ambientazione di Tolkien.

La parte centrale del manuale contiene tutte le tabelle necessarie al gioco, che a onor del vero sono parecchie, però, contrariamente al sentire comune, non rallentano necessariamente il gioco. Chiaramente un neofita potrà trovarsi spaesato, ma con la pratica e l’esperienza l’uso delle tabelle fila liscio come l’olio, ve lo assicura uno che ci ha giocato per anni! Inoltre, la descrizione dei risultati ottenuti sulle tabelle possono aiutare il master e i giocatori nel visualizzare meglio l’esito dell’azione. 

Il manuale continua con due ottimi capitoli dedicati alla descrizione di tutte le razze e le creature della Terra di Mezzo, oltre 30 pagine piene di dettagli e curiosità, in grado di appassionare chiunque a questa fantastica ambientazione. Infine, soltanto nella prima edizione, a chiusura del volume si trovano due ottime avventure introduttive, ideate per giocatori alle prime armi.

Personalmente parlando, trovo che MERP sia un ottimo gioco, di molto superiore allo stesso Rolemaster da cui deriva: le infinite regole e tabelle di questo sono state semplificate in maniera perfetta, ottenendo un gioco ricco di dettagli, ma mai pesante e sempre gradevole da giocare. Derivando da Rolemaster, MERP è stato spesso ingiustamente accomunato nelle varie critiche rivolte al suo fratello maggiore, trovandosi così appiccicata l’etichetta di gioco complicato. Al di là dei gusti personali, per cui un regolamento può piacere o meno, mi sento di poter smentire tranquillamente queste voci, avendo giocato a questo sistema all’età di appena 13 anni. Fino a quel momento conoscevo soltanto D&D, e MERP mi colpì subito per il suo maggior realismo, le splendide tabelle dei colpi critici e il sistema di abilità che, dobbiamo ricordare, il primo D&D neppure aveva.

Oltre al regolamento, l’altro punto forte di MERP è ovviamente la sua ambientazione. Conobbi e mi innamorai del mondo di Tolkien grazie a questo gioco: il manuale base e i numerosi moduli geografici erano una fonte inesauribile di dettagli sulla Terra di Mezzo; e anche quando venivano inventati fatti e personaggi, tutto rimaneva assolutamente coerente con l’ambientazione dei romanzi. Secondo alcuni il regolamento di MERP sarebbe inadatto all’ambientazione di Tolkien, ma non mi trovo d’accordo con questa affermazione. E’ vero che MERP, derivando da un Rolemaster, non è stato espressamente pensato per il mondo della Terra di Mezzo, ma dobbiamo anche considerare che all’epoca i giochi di ruolo fantasy si modellavano tutti sul più famoso D&D. MERP potrà non essere perfetto per il Signore degli Anelli, ma non c’è nessuna stonatura evidente, neppure nel sistema magico, la parte più soggetta a critiche. Gandalf non è certo l’unico stregone della Terra di Mezzo, per cui è plausibile che i giocatori possano impersonarne altri; inoltre, anche se Gandalf usa raramente i suoi poteri, questo non vuol dire che i giocatori debbano fare altrettanto, o che i maghi nella Terra di Mezzo siano limitati. Sicuramente mancano gli incantesimi più spettacolari in stile D&D, ma ne Lo Hobbit Gandalf fa un ampio uso di incantesimi di attacco. Anche il gioco di ruolo del Signore degli Anelli della Decipher, ideato appositamente per l’ambientazione di Tolkien e uscito all’epoca dei film, permetteva di creare maghi e stregoni, mettendo loro a disposizione parecchi poteri e incantesimi. A conti fatti, quindi, MERP è sufficientemente adatto alla Terra di Mezzo e alla sua ambientazione, e i tanti anni di gioco che vi ho fatto da ragazzo lo dimostrano ampiamente.

domenica 16 dicembre 2012

Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato




Il primo film della trilogia de Lo Hobbit è finalmente arrivato nelle sale italiane, e io, da bravo nerd, sono già andato a vederlo. Per evitare qualsiasi fraintendimento, vi dico subito che il film è bellissimo: gli scenari e l’ambientazione sono mozzafiato, così come i combattimenti, e vi si respira la stessa aria epica del Signore degli Anelli. La fedeltà al romanzo, tuttavia, non è molto alta. Questo non è necessariamente un difetto: neppure la trilogia del Signore degli Anelli era esattamente fedele al libro, ma era pur sempre un capolavoro (almeno per il sottoscritto). 

Moltissimi siti internet o blog sono in grado di recensire il film meglio di come saprei parlarvene io, che in fin dei conti sono solo un appassionato di cinema fantasy, non certo un esperto. Analizzare le differenze tra film e romanzo, invece, è una cosa più complessa, che non molti sono in grado di fare, ed è proprio quello di cui intendo occuparmi. Qualcuno potrebbe chiedersi il perché. Beh, innanzitutto, per scrivere una simile recensione è necessario uno sfoggio di cultura nerd di proporzioni epiche, e non voglio davvero farmi sfuggire l’occasione! Potrei anche aggiungere che lo faccio per un mio amico, a cui la questione fedeltà film-romanzo sta molto a cuore. C’è tuttavia un motivo pratico che mi spinge a scrivere una recensione così particolare, ovvero cercare di comprendere meglio le scelte e le decisioni che sono state prese, in sede di adattamento, da parte di Peter Jackson e della sua squadra. Un film non è soltanto ciò che appare sullo schermo: dietro le quinte c’è un gigantesco lavoro da parte degli sceneggiatori allo scopo di mettere in scena ciò che fino a quel momento è soltanto su carta. Vedremo come molte delle differenze tra film e romanzo sono il frutto di una scelta guidata da un preciso intento, cioè quello di rendere Lo Hobbit un prequel del Signore degli Anelli a tutti gli effetti. Altre divergenze, invece, appaiono inesplicabili, quasi degli errori; tuttavia, non penso che Peter Jackson si sia sbagliato o non conoscesse la materia; penso piuttosto che certe scelte siano state dettate da una volontà di semplificare le cose, in modo da far risultare la trama più lineare e centrata sui personaggi della storia.

Detto questo, andiamo pure a cominciare, ma vi avverto, le prossime righe sono piene zeppe di spoiler! Il film si apre con un Bilbo anziano che, ripensando alle sue avventure passate, decide di metterle per iscritto. Peter Jackson mette quindi subito in scena l’antefatto de Lo Hobbit, ovvero l’attacco del drago alla città di Dale e al regno nanico di Erebor. Nel romanzo, il racconto dell’attacco di Smaug viene fatto da Thorin a Bilbo durante la cena con i nani, ma lo spostamento di tale scena all’inizio del film si spiega con la necessità di dare subito agli spettatori un chiaro punto di partenza, un po’ come l’introduzione al Signore degli Anelli. C’è una piccola differenza fra come la scena è raccontata nel romanzo e come viene vista nel film: nel romanzo, il giovane Thorin si trovava fuori della montagna al momento dell’attacco del drago. Convinto che il drago avesse ucciso suo padre e suo nonno, Thorin è molto stupito nel vederseli apparire  davanti, poiché non era a conoscenza del passaggio segreto usato dai suoi familiari nella fuga. Nel film, invece, Thorin si trova nella montagna, assiste all’attacco del drago dal quale si salva per miracolo, e poi fugge insieme a suo padre e suo nonno, senza utilizzare il passaggio segreto. 

Terminata l’introduzione, il film continua con Bilbo intento a scrivere le sue memorie su un libro dalla copertina di pelle rossa. La contestuale comparsa di Frodo e la conversazione fra i due non lasciano dubbi sul collocamento temporale di questa scena: è esattamente il giorno della festa del 111° compleanno di Bilbo, la stessa che si vede nella Compagnia dell’Anello. Frodo prende un libro ed esce di casa, con l’intenzione di aspettare Gandalf che deve ancora arrivare, lasciando così Bilbo libero di continuare a scrivere sul libro rosso, lo stesso sul quale poi Frodo annoterà la sua avventura. Le parole che Bilbo scrive su carta ricalcano le stesse con cui si apre il romanzo de Lo Hobbit, e finalmente la scena si sposta a 60 anni prima. Un Bilbo più giovane sta fumando beatamente la pipa davanti alla porta di casa, quando appare Gandalf. Lo stregone tenta di capire se il giovane hobbit possa fare al caso suo nella grande impresa che sta preparando. Dopo aver tracciato un simbolo magico sulla sua porta, lo stregone si ritira. Quella sera Bilbo riceve la visita inaspettata dei nani. Si presentano alla spicciolata, ma a differenza del romanzo, Thorin Scudodiquercia si presenta per ultimo, a cena ormai ultimata. Dopo aver sparecchiato piatti e bicchieri, è tempo per i nani di discutere dell’avventura che li attende. Le cose vanno più o meno come nel romanzo, ma quando Gandalf consegna a Thorin la chiave che dovrebbe aprire il passaggio segreto nella montagna, si limita a dire di averla avuta da Thrain, suo padre, senza alcun accenno alle circostanze in cui l’ha avuta. Nel romanzo Gandalf rivelò come incontrò Thrain nelle segrete di Dol Guldur, prigioniero del Negromante. Prima di morire, Thrain gli consegnò la chiave, pregandolo di farla avere a suo figlio. La differenza fra libro e romanzo non sembra, a prima vista, una cosa molto importante: si potrebbe pensare che, per mantenere le cose più semplici possibili, Peter Jackson abbia evitato di dare informazioni aggiuntive che avrebbero potuto appesantire la narrazione. Vedremo in seguito che le cose stanno diversamente, e che questa omissione è importantissima.

Torniamo al film: Bilbo rifiuta di partire con i nani, con apparente delusione di Gandalf. Quando si sveglia, la mattina dopo, la sua casa è vuota, i nani e lo stregone se ne sono andati. Il suo occhio cade sul contratto da scassinatore che i nani gli avevano dato, il suo amore per l’avventura si risveglia, e in fretta e furia esce in strada, riuscendo a raggiungere i suoi compagni. Durante alcune chiacchiere fra Bilbo e Gandalf, quest’ultimo rivela l’esistenza di altri stregoni come lui: i due stregoni azzurri di cui non ricorda i nomi e che sono scomparsi ad est, Saruman e Radagast. Di Saruman gli spettatori sanno già tutto ciò che c’è da sapere, anche se all’epoca de Lo Hobbit (circa 60 anni prima degli eventi del Signore degli Anelli) non era ancora diventato malvagio; Radagast, invece, è un perfetto sconosciuto, e anche nel romanzo la sua esistenza viene appena accennata. Nel film, invece, ci viene immediatamente mostrato, in una scena che è a dir poco fondamentale: nella sua casa presso Bosco Atro, lo stregone viene attaccato dai alcuni ragni giganti; dopo averli respinti, Radagast decide di seguirli per scoprire da dove provengano. Scopre così le rovine della fortezza di Dol Guldur, e al suo interno viene attaccato dal capo dei Nazgul in persona, sotto forma di spettro! Sfuggito anche a questo attacco, lo stregone vede una forma oscura, il Negromante di Dol Guldur, che altri non è che Sauron in persona! Radagast fugge immediatamente dalla fortezza in rovina, portando con se una prova fondamentale del ritorno dell’Oscuro Signore, ovvero un pugnale morgul. 

Con questa scena Peter Jackson inizia a trasformare il romanzo de Lo Hobbit in un vero e proprio prequel del Signore degli Anelli, e per fare questo deve andare ben oltre il contenuto del libro. Diciamoci la verità: la storia di Bilbo, dei nani, e della riconquista del tesoro, non ha nessun collegamento diretto con la successiva Guerra dell’Anello. Lo stesso ritrovamento dell’Unico Anello, di capitale importanza per le future vicende, è al momento importante solo perché in grado di rendere Bilbo invisibile! Nessuno, neppure Gandalf, nel romanzo, ne intuisce l’importanza. Per trasformare Lo Hobbit nel prequel del Signore degli Anelli, Peter Jackson deve inventare, deve rendere evidenti collegamenti ancora labili, deve mettere in scena situazioni che forse sono avvenute o forse no, ma in ogni caso deve gettare un ponte fra le due storie.

Il film ritorna sui nani, accampati per la notte in una radura. Balin racconta a Bilbo e agli altri nani della compagnia la storia del loro leader, Thorin Scudodiquercia, e di come ha ottenuto questo soprannome. Il racconto si sviluppa sotto forma di flashback, mostrandoci la battaglia di Azanulbizar, lo scontro finale della grande guerra fra gli orchi e i nani. Nel romanzo, questa scena non esiste. Esiste invece il racconto della guerra nelle appendici del Signore degli Anelli, solo che la versione che ne dà Peter Jackson è notevolmente diversa da quella di Tolkien. Dato che è una cosa un po’ lunga e complicata, cercherò di essere breve. Gli annali raccontano come Thror, il nonno di Thorin, si recò a Moria durante il suo vagabondaggio, e qui fu ucciso da Azog, il capo degli orchi. Nar, il nano che viaggiava con lui, fu risparmiato affinché potesse tornare dai suoi simili a raccontare cosa era successo, portando con se la testa decapitata del vecchio re dei nani. Thrain, suo figlio, deciso a vendicare l’onta, mise insieme una grossa armata e diede battaglia agli orchi in ognuna delle loro fortezze. Lo scontro finale avvenne fuori le porte di Moria, e fu in questa occasione che Thorin si guadagnò il suo soprannome, usando un pezzo di quercia come scudo, avendo perso il suo in battaglia. Nain, il capo dei nani dei Colli Ferrosi, affrontò Azog in battaglia, ma fu sconfitto e ucciso. Nonostante questo, i nani vinsero la battaglia, sbaragliando gli orchi; Azog tentò di fuggire, rifugiandosi dentro Moria, ma fu raggiunto e ucciso da Dain, figlio di Nain. A battaglia finita ricomparve anche Thrain, orbo da un occhio e azzoppato, deciso a reclamare l’antica dimora di Moria, ma Dain, l’unico ad aver guardato oltre le sue porte, lo sconsigliò di proseguire, poiché il Flagello di Durin era in agguato al suo interno (ovvero il Balrog di Moria, sconfitto da Gandalf nel Signore degli Anelli). La battaglia messa in scena da Peter Jackson è parecchio diversa: Thror, il nonno di Thorin, viene ucciso da Azog direttamente in battaglia; Thorin lo affronta in cerca di vendetta, riuscendo a tagliargli una mano. Azog fugge dalla battaglia, e viene creduto morto dai nani, che riescono a vincere lo scontro. La versione di Peter Jackson fa scomparire dalla scena i nani che non sono presenti nel film (Nain e Dain), regala a Thorin una parte da protagonista che negli annali non ha, ma soprattutto salva Azog dalla morte, che viene così promosso al ruolo di nemico personale di Thorin. Ma perché queste differenze? La semplificazione della battaglia di Azanulbizar e il maggior ruolo da protagonista avuto da Thorin possono spiegarsi nell’ottica di semplificare la storia, accentrandola il più possibili sugli stessi personaggi del film. La scelta di lasciare vivo Azog, invece, non riesco a spiegarmela. Nel film, gli attacchi degli orchi subiti dalla compagnia dei nani hanno sempre la regia occulta di Azog, che agisce fondamentalmente per vendetta. Nel romanzo, gli orchi non braccano attivamente i nani, iniziano a farlo soltanto dopo che Thorin e suoi compagni attraversano le montagne nebbiose e uccidono il Grande Orco. Nel finale del romanzo, inoltre, è Bolg, il figlio di Azog, a guidare gli orchi nella Battaglia dei Cinque Eserciti, che bisogno c’era di tenere in vita il padre?

Il film prosegue, e si arriva alla famosa scena dei troll. Nel romanzo, i nani mandano Bilbo ad investigare sulla presenza di una luce nella foresta di notte. Muovendosi di soppiatto, Bilbo scopre tre grossi troll intenti a cucinarsi la cena. Bilbo tenta di borseggiarne uno dei troll, ma viene scoperto e catturato. Per paura, Bilbo rivela ai troll la presenza dei nani, che vengono quindi catturati uno ad uno, man mano che si avvicinano per controllare cosa fosse successo allo hobbit. Provvidenziale è l’intervento di Gandalf: nascosto fra le rocce, lo stregone riesce a far perdere tempo ai troll, indecisi su come cucinare e mangiare i nani finché non arriva l’alba, che li tramuta in roccia. Nel film, Kili e Fili scoprono l’accampamento dei troll, e mandano Bilbo ad investigare. Bilbo viene scoperto e catturato, ma Kili e Fili corrono ad aiutarlo, seguiti poco dopo dal resto dei nani. Viene ingaggiata una furiosa battaglia, che di fatto non porta a nulla (possibile che 13 nani non riescano ad uccidere almeno un troll?), finché i troll non prendono Bilbo in ostaggio, obbligando così i nani ad arrendersi. E’ Bilbo, e non Gandalf, a far perdere tempo ai troll, giusto in tempo per dare al sole il tempo di sorgere e tramutarli in pietra. Questa modifica della scena era abbastanza scontata, immaginavo che Peter Jackson ne avrebbe approfittato per movimentare le cose con una bella battaglia. Forse è un po’ inspiegabile che Thorin faccia deporre le armi ai nani quando Bilbo viene catturato, considerato come lo abbia trattato a pesci in faccia fino ad un minuto prima, ritenendolo un membro inutile della compagnia, ma c’è anche da dire che i nani sono fieri e leali, e che da Thorin Scudodiquercia non mi sarei aspettato niente di meno.

Il film continua con i nani che vengono braccati da un gruppo di orchi a cavallo di alcuni mannari, orchi inviati da Azog, anche se i nani ancora non lo sanno. Questa scena è totalmente inesistente nel romanzo. Improvvisamente appare Radagast, che rivela a Gandalf cosa ha scoperto a Dol Guldur, consegnandogli il pugnale morgul, cioè la prova del ritorno di Sauron. Lo stregone di Bosco Atro cerca di sviare l’attenzione degli orchi da Gandalf e i nani, senza troppo successo. I nani sono costretti a fuggire e si riparano in un passaggio fra le rocce che li porta fino a Gran Burrone, mentre gli orchi vengono trucidati da alcuni elfi a cavallo. Fra questi elfi c’è anche sire Elrond, che torna a Gran Burrone pochi istanti dopo l’arrivo di Thorin. Anche questa scena, come la precedente, è del tutto inventata. La permanenza dei nani a Gran Burrone, nel libro, è descritta come un periodo di tempo piacevole; lo stesso avviene nel film, anche se Thorin manifesta parecchia sfiducia nei confronti degli elfi. A Gran Burron Gandalf incontra Galadriel e Saruman, e insieme a Elrond discutono delle scoperte fatte da Radagast a Dol Guldur. Questa scena, credo sia inutile dirlo, è assolutamente inventata. Ma intendiamoci bene: sul finire del romanzo de Lo Hobbit, Gandalf rivela a Bilbo come lui e il Bianco Consiglio abbiano scacciato il Negromante da Dol Guldur, per cui una simile riunione sarà certamente avvenuta. Quello che è davvero inventato è l’oggetto del loro discorso, ovvero il potenziale ritorno di Sauron. Vi ho già detto come Peter Jackson cerchi di saldare Lo Hobbit al Signore degli Anelli, e questa scena va assolutamente in quel senso, suggerendo allo spettatore come Gandalf abbia scoperto in quel preciso istante come Sauron, l’Oscuro Signore, sia tornato nella Terra di Mezzo. Questa scena, però, contraddice pesantemente non solo il libro de Lo Hobbit, ma anche quello del Signore degli Anelli: Gandalf e gli stregoni furono inviati nella Terra di Mezzo circa 1000 anni prima degli eventi de Lo Hobbit per lottare contro Sauron … come potevano essere all’oscuro della sua esistenza? Nei romanzi è chiarissimo come Gandalf già sapesse che il Negromante fosse Sauron, e già una paio di volte si era recato nella fortezza di Dol Guldur (lui, non Radagast). Proprio nella fortezza vi aveva trovato Thrain, il padre di Thorin, che nell’occasione gli aveva dato la chiave del passaggio segreto, vi ricordate? Ecco perché Gandalf non ha potuto dire nulla sul ritrovamento della chiave: nel film, secondo la cronologia inventata da Peter Jackson Gandalf non è mai stato a Dol Guldur!

Da questo punto in poi, il film scorre abbastanza simile al libro. I nani lasciano Gran Burrone e attraversano le montagne, trovandosi in mezzo ad una battaglia fra giganti di roccia. Si riparano in una grotta, dove vengono fatti prigionieri dagli orchi. Nel libro Gandalf era insieme ai nani, ma riesce ad evitare la cattura grazie ai suoi poteri. Nel film Gandalf è ancora a Gran Burrone, e raggiunge i nani giusto in tempo per salvarli dal Grande Orco. Una differenza marginale, è vero, ma pur sempre una differenza. Bilbo incontra Gollum, ma quest’ultimo inizialmente non lo vede, intento com’è a trascinare via un orco destinato a diventare la sua cena. Nel trambusto a Gollum gli cade l’anello, che Bilbo prontamente raccoglie. Nel romanzo Bilbo trovava l’anello per caso, ancora prima di incontrare Gollum. Segue quindi la famosa sfida di indovinelli, con il finale che tutti sappiamo. Mentre Bilbo fugge via invisibile da Gollum, si manifesta un’ulteriore differenza fra romanzo e film: Gollum precede Bilbo all’uscita, nascondendosi mentre passano Gandalf e i nani in fuga; allora Bilbo, vedendo i suoi compagni fuggire, scavalca Gollum con un salto e raggiunge la salvezza alla luce del sole. Nel romanzo, Bilbo non vede i nani fuggire (sono scappati prima di lui), e anzi trova la strada sbarrata da parecchi orchi, che però supera agilmente grazie all’anello. 

Bilbo e i nani si sono appena riuniti, quando vengono circondati dagli orchi in sella ai mannari e guidati da Azog in persona, che si rivela infine quale capo degli orchi e nemico giurato di Thorin. Bilbo e i nani cercano la salvezza sugli alberi, mentre Gandalf incendia delle pigne e le scaglia contro i mannari. La foresta prende fuoco, gli alberi crollano, i nani sono quasi spacciati, quando ecco che Thorin scende dall’albero per sfidare Azog in persona. Thorin ha la peggio, e sarebbe ucciso se Bilbo, in preda al furore, non corresse a dargli una mano, seguito da alcuni nani. Sono però le grandi aquile, chiamate da Gandalf, a salvare i nani e lo stregone da una morte certa, portandoli via in volo, con grande scorno di un Azog infuriato come non mai. Nel libro la scena è diversa, dato che ovviamente Azog è bello che morto da anni, e che le aquile intervengono di loro spontanea volontà, non perché sono chiamate da Gandalf. Nel romanzo, inoltre, sono solo i mannari ad inseguire e ad attaccare i nani, gli orchi non ci stanno neppure in cartolina.

Le aquile lasciano Bilbo e compagni su un alto pinnacolo di roccia, dal quale si intravede in lontananza la Montagna Solitaria. Thorin abbraccia Bilbo, ringraziandolo per avergli salvato la vita, e confessando al piccolo hobbit di essersi sbagliato sul suo conto. Bilbo è felice di vedere il suo valore riconosciuto da Thorin, e volgendo lo sguardo sulla Montagna Solitaria, afferma che il peggio è passato. Un’affermazione un po’ azzardata, considerando che l’ultima inquadratura è per l’occhio del drago Smaug, che si spalanca all’improvviso … 

Se mi avete seguito fino a qui siete degli eroi. Tirando le somme, le differenze tra il film e il libro sono tante. Alcune sono giustificate da un’esigenza di semplificazione, che il purista può non gradire, ma che si spera riesca almeno a comprendere. Altre differenze sono minime, non cambiano davvero lo stato delle cose, come la scena dei troll, ma servono ad offrire un po’ più di azione al film. Le modifiche più impegnative sono quelle che vanno nella direzione di fondere Lo Hobbit e il Signore degli Anelli in un’unica grande storia, con le radici della vecchia trilogia che affondano pesantemente in quella nuova. E’ una scelta che può essere condivisibile o meno, solo alla fine di tutti e tre i film si potrà dare un vero giudizio. Al di là del personale fastidio che posso provare nel vedere cambiati o manipolati certi eventi (se non proprio creati ex-novo), l’intento di saldare Lo Hobbit e il Signore degli Anelli in un'unica grande saga ha per adesso comportato una sola conseguenza, ovvero quella di tirare fuori una trilogia di film da un libro di appena 300 pagine. Una storia che poteva essere raccontata in uno, al massimo due film, è stata stiracchiata su tre film di quasi tre ore ciascuno. Considerando che il primo film arriva da solo a metà libro, è abbastanza chiaro cosa potremo trovare negli altri due film …

venerdì 7 dicembre 2012

Dungeons & Dragons 4° edizione




La 5° edizione di D&D sarà presto una realtà. Già da diversi mesi è possibile seguire su internet il playtest da parte di giocatori e designer, e anche se a tutt’oggi manca una data certa di uscita, è probabile che D&D Next vedrà la luce il prossimo anno. Per questo motivo voglio sbrigarmi a dire la mia su questa 4° edizione. A voler essere brevi, basterebbe dire che è una cagata immonda: dopo essere stata battuta nel suo stesso campo da Pathfinder, dopo aver creduto di salvare il salvabile e di risalire un po’ nelle vendite con l’uscita dei pessimi D&D Essential, la Wizards ha infine deciso che non era il caso di sprecarci altro tempo, e di mandarla in pensione prima del tempo, una cosa mai avvenuta prima nella lunga storia di D&D!
Parlando della mia esperienza personale con questa edizione, basti sapere che dopo averci giocato per oltre un anno, ne sono rimasto parecchio deluso (per non dire schifato). Due anni fa, nel 2010, quando già stava iniziando a frullarmi in testa l’idea di aprire un sito di giochi di ruolo, ne scrissi una recensione, che è rimasta nel cassetto sino ad ora. Rileggendola, mi vengono subito in mente due cose: la prima, che il mio giudizio non è cambiato di una virgola; la seconda, che l’insuccesso commerciale della 4° edizione ha totalmente confermato il mio giudizio … non senza un perverso piacere, lo ammetto!

Considerando che da sempre D&D ha avuto la funzione di introdurre nuovi giocatori ad un hobby di nicchia come quello del gioco di ruolo, nonché il traino economico che l’importanza del suo marchio ha nel mercato, in teoria ci si dovrebbe dispiacere di questo fallimento commerciale . Se però mi metto a pensare agli obbrobri di questa 4° edizione, inizia a dispiacermi un po’ meno, e anzi sono decisamente felice che non vi sarà più un simile gioco a traviare la mente dei nuovi giocatori. Capisco che in un’epoca tecnologica come la nostra, dove il gioco di ruolo subisce la spietata concorrenza di intrattenimenti basati sull’aspetto visivo e su una fruizione passiva e solitaria da parte dell’utente, non si possa pretendere un grande ricambio generazionale fra i giocatori. Ma proprio perché il gioco di ruolo è un hobby di nicchia basato sulla narrazione e la fantasia dei partecipanti, è inutile invogliare le persone a giocarci snaturandone l’essenza, e trasformandolo in una penosa imitazione di un videogame. La 4° edizione ha tentato di fare questo e molto di peggio, ed ecco perché non ne sentirò affatto la mancanza.  

Veniamo quindi alla recensione vera e propria. Nonostante vi abbia già anticipato cosa pensi di questo gioco, proverò ad essere il più obiettivo possibile, riconoscendo a Cesare ciò che è di Cesare se del caso, ma non sarà una cosa semplice. Al di là dei gusti personali, infatti, non è facile, recensire con obiettività la 4° edizione del primo gioco di ruolo ad essere stato creato, il più famoso al mondo, (ex) dominatore incontrastato del mercato, nonché, con grande probabilità, il primo ad essere stato giocato da moltissime persone, compreso il sottoscritto. Il paragone con l’edizione precedente, inoltre, molto amata dai giocatori e detentrice di incredibili record di vendita, sarà inevitabile. La 4° edizione, come le precedenti, si presenta divisa nei tre classici manuali, dedicati al giocatore, al Dungeon Master e ad i mostri. Ogni anno, inoltre, la Wizards ha rilasciato un seguito ad ogni manuale, quindi un manuale del giocatore 2, un manuale dei mostri 2 e così via, con il compito di espandere le regole e le opzioni per i giocatori. Questa scelta si è dimostrata subito infelice, a parer mio, poiché solo per giocare con le razze e le classi presenti nella vecchia edizione è stato necessario aspettare un paio di anni. I manuali sono completamente a colori, ogni capitolo è introdotto da un’illustrazione che copre due intere pagine, quasi tutte molto belle e di impatto. Lo stile grafico scelto si distacca un po’ dai canoni classici delle vecchie edizioni, strizzando l’occhio ai manga e ai videogiochi per venire incontro alle nuove generazioni di giocatori. 

Il manuale del giocatore presenta tutte le regole necessarie per creare un personaggio e portarlo dal 1° al 30° livello, le regole sul combattimento e, novità rispetto alla vecchia edizione, le liste di oggetti magici, che sono sempre state sul manuale del Dungeon Master. Il personaggio è ancora definito dalle classiche sei caratteristiche (Forza, Destrezza, ecc.), e ritroviamo i concetti di Classe Armatura, Punti Ferita, e quanto altro ha sempre caratterizzato la storia di D&D. Le razze disponibili ai giocatori subiscono lievi modifiche: entrano tiefling e dragonidi mentre gli elfi vengono divisi in due razze: gli elfi propriamente detti e gli eladrin, una sorta di alti elfi di sapore tolkeniano. Anche le classi vengono riviste, fanno la loro comparsa il condottiero e il warlock, mentre escono il druido e il monaco (recuperati in seguito con gli altri manuali). Ogni classe ha un ruolo specifico che descrive in termini generali come combatte, come si rapporta alle altre e in definitiva quale è il suo compito nel gruppo e nel gioco. Esistono in tutto quattro ruoli: il difensore, che si lancia nella mischia con lo scopo di attirare su di se più nemici possibili, proteggendo quindi gli altri personaggi; il controllore, che combatte dalle retrovie manipolando il campo di battaglia; la guida, capace di spronare, curare ed aiutare i suoi alleati; l’assalitore, che si scaglia contro un singolo nemico tempestandolo di colpi e cercando di abbatterlo nel più breve tempo possibile. Come i giocatori più smaliziati ed esperti avranno intuito, esempi per ogni ruolo sono, rispettivamente, il guerriero, il mago, il chierico e il ladro. Per una precisa scelta nell’impostazione del gioco, il regolamento è più scarno e facile da assimilare rispetto a prima, le regole sono state semplificate dove possibile. Le abilità dei personaggi, ad esempio, hanno subito un drastico ridimensionamento nel numero, eliminandone alcune (es. Artigianato e simili), e accorpandone altre (Ascoltare e Osservare diventano la singola abilità Percezione), il tutto nel segno di uno snellimento e di facilitazione nel gioco. 

Il cuore delle meccaniche di questa edizione è nel sistema dei poteri, il quale occupa la parte centrale del manuale del giocatore e su cui conviene spendere due parole. Il termine “potere”, in questa 4° edizione, viene usato per indicare due cose distinte ma collegate: si riferisce infatti sia a singole capacità straordinarie, sia alla fonte di tali capacità. Il manuale descrive le fonti di potere Marziale, Divina e Arcana. I guerrieri, quindi, nel compiere i loro attacchi, attingono alla fonte di potere Marziale, e hanno a disposizione mosse e colpi collegati all’uso delle armi; chierici e paladini, invece, fanno appello al potere Divino, utilizzando preghiere per colpire i loro nemici, mentre i maghi sfruttano il potere Arcano per incantesimi devastanti. Ogni classe ha a disposizione una lista iniziale di poteri, e man mano che il personaggio cresce di livello ne ottiene di nuovi, sempre più potenti. Ogni potere è descritto secondo un formato standard, uguale per tutti, che indica come e quando va utilizzato e quali sono i suoi effetti. Quindi, concettualmente, non c’è differenza fra come è descritto un incantesimo o un attacco del guerriero, saranno i suoi effetti in gioco e il modo con cui si presenta a livello descrittivo a fare la differenza. Il sistema dei poteri, in definitiva, è la vera novità di questa edizione, nonché ciò che maggiormente la differenzia (in peggio) dalle precedenti. 

Il resto del manuale del giocatore comprende liste di talenti, oggetti magici ed equipaggiamento vario, nonché le regole sul combattimento, le quali non differiscono molto da quelle delle vecchie edizioni. Anche il manuale del Dungeon Master contiene tutto ciò che è lecito aspettarsi: regole su come costruire incontri di combattimento, come scrivere avventure, gestire il gruppo ed in genere tutto ciò che riguarda la conduzione di una partita. L’unico concetto nuovo ad esser stato introdotto sono le sfide di abilità, ovvero un sistema per risolvere situazioni di non combattimento, come ad esempio un inseguimento o un negoziato, dove ogni giocatore mette alla prova una sua diversa abilità. Tentando di raggiungere la quota richiesta di successi, il gruppo, considerato qui nel suo complesso, riesce o fallisce nella prova. Questo sistema ha il pregio di coinvolgere tutti i giocatori nella risoluzione di un compito o di una prova, ed è sufficientemente flessibile da adattarsi a simulare diverse situazioni avventurose. Il manuale dei mostri, infine, è il solito elenco di creature da poter usare per sfidare i vostri personaggi. I mostri sono classificati in livelli che indicano la loro potenza generale, ma anche in base al loro ruolo in combattimento; ogni mostro è presentato secondo un formato semplice, intuitivo, e, quel che più conta, veloce da utilizzare, soprattutto se durante il gioco vi capita di dover impiegare una creatura senza esservi preparati. 

Per concludere, allontaniamoci dai singoli manuali e diamo uno sguardo alla 4° edizione nel suo complesso, in particolare alle sue novità. Questa edizione, infatti, non è una mera continuazione della precedente, ma tenta di innovare e di proporre qualcosa di nuovo, come ad esempio il sistema dei poteri. L’intento innovatore, ha paradossalmente scontentato molte persone: i giocatori di ruolo, ed in particolare quelli di D&D, hanno una certa resistenza al cambiamento e vogliono che i concetti con cui sono cresciuti giocando continuino a seguirli negli anni. A mio parere, però, dopo che la 3° edizione aveva già esplorato ogni possibile opzione di gioco nel corso di quasi dieci anni e svariati manuali, riproporre lo stesso identico prodotto con appena qualche mutamento di facciata sarebbe stata una presa in giro. La 4° edizione ha preso le mosse da concetti noti ad ogni giocatore di D&D, cercando di aggiungervi qualcosa di nuovo. La Wizards ha tentato una mossa coraggiosa, che idealmente mi sento di condividere. Purtroppo non posso dire altrettanto della filosofia e delle scelte di design che stanno alla base di questa edizione: ricercare la semplicità e lo snellimento delle regole a tutti i costi finisce per risultare deleterio se la differenza fra un incantesimo e un colpo di spada viene annullata con il nuovo sistema dei poteri. Tale sistema, infatti, annacqua le differenze tra le varie classi: queste vengono a trovarsi piene di poteri di combattimento, ma, per via della semplificazione degli effetti dei vari poteri, ogni attacco è del tutto simile ad un altro, l’unica differenza fra gli stessi è nella descrizione verbale del master e non nella sostanza. L’effetto concreto di un potere è completamento slegato dalla sua descrizione, e fà si che alcuni poteri siano davvero difficili da mandar giù a livello di verosimiglianza (sia pure a livello fantasy). Vedere il condottiero che guarisce gli alleati incitandoli con le parole è un’assurdità che si giustifica unicamente nel contesto delle regole: il condottiero deve avere quel potere per questioni di sistema e di bilanciamento, e pazienza se la cosa non ha senso. Ma la cosa più brutta dei poteri è che somigliano tremendamente a quelli dei videogiochi o dei giochi di carte, con la possibilità di combinazioni o di ricariche dei poteri che possono divertire solo i fan più accaniti della strategia, ma che in ultima analisi uccidono senza pietà il gioco di ruolo. Ogni cosa è pensata in funzione del combattimento, i poteri vengono classificati in base a quante volte puoi usarli in combattimento, e quando li hai finiti ti riposi per riprendi a lottare il giorno dopo, in un’eterna spirale di battaglie, come hanno ben dimostrato le avventure ufficiali della Wizards. Il fatto che un guerriero, ad esempio, possa tentare una particolare mossa solo una volta in uno scontro è senza senso, e dimostra chiaramente come il sistema dei poteri di questa edizione sia improntato unicamente ad una logica da videogioco. Infastidisce poi questa corsa a sfoltire le regole ed a semplificare tutto, come se i giocatori di ruolo fossero bimbominkia rincoglioniti; se venissimo considerati come normali esseri umani, capaci di leggere e pensare, è chiaro che non oserebbero rifilarci un prodotto del genere. 

Giunti a questo punto non saprei come poter continuare a parlar male di questa 4° edizione, salvo ribadire alcuni concetti già accennati proprio all’inizio della recensione. Pur consapevole dell’importantissimo ruolo che D&D svolge nell’asfittico mercato odierno dei giochi di ruolo, i danni che questa edizione può portare (e che probabilmente ha già portato) sono ben maggiori dei benefici. Danni alle nuove generazioni di giocatori, soprattutto in termini di mentalità, poiché penseranno che usare poteri senza senso in combinazioni sempre più assurde sia giocare di ruolo; e danni sui futuri giochi di ruolo, che di solito tendono a modellarsi sulle forme del loro esponente più famoso e venduto, appiattendo così la varietà del gioco e riducendo la scelta per noi giocatori.