Salve a tutti e ben
ritrovati. Trainato dal successo commerciale e mediatico della 5° edizione di
Dungeons & Dragons, il gioco di ruolo sta vivendo un momento d’oro. Sempre
più nuovi giocatori scoprono questo hobby mentre i vecchi tornano a giocare,
titoli e supplementi continuano ad uscire senza sosta mentre su Twitch e
YouTube si moltiplicano i canali dedicati all’”actual play”. Al di là del
giudizio che si può dare di ciò, in particolare di questa deriva
“voyeuristica”, è innegabile che il gioco di ruolo stia tornando ai fasti di un
tempo. Sui gruppi Facebook si iscrivono nuove persone desiderose di provare, di
imparare a giocare, alla ricerca di altri come loro. Proprio questo afflusso di
nuovi giocatori fa si che i loro dubbi e le loro incertezze riportino al centro
dell’attenzione tematiche ben conosciute ai giocatori di ruolo più navigati:
come bilanciare gli incontri, cosa sono realmente i punti ferita etc. In questo
articolo, elaborato nello stile di un Q&A, cioè domanda e risposta, voglio
provare a chiarire eventuali dubbi e meccaniche implicite del gioco di ruolo,
nella speranza che risultino utili ai nuovi giocatori (ma un ripassino fa
sempre comodo anche a chi ha più esperienza). Le risposte avranno un tono generalista,
adatte cioè a qualunque sistema, ma con un’attenzione particolare a D&D 5°
edizione, che è e resta il titolo più giocato. Ci saranno in futuro altri
articoli simili; in questo, nello specifico, si parlerà soprattutto di morte
del personaggio e cosa rappresentano davvero i punti ferita.
La morte di un personaggio giocante è un evento frequente?
Dovrebbe esserlo?
La risposta sintetica
è no, la morte di un personaggio giocante non dovrebbe avvenire spesso. Fra i
due estremi di un gioco in cui nessuno è mai in pericolo e un personaggio morto
ad ogni sessione, l’asticella ideale dovrebbe stare su “raramente”. Un
giocatore spende tempo ed energie nella creazione di un personaggio, non solo
come insieme di statistiche ma soprattutto nel delineare la sua personalità e
la sua storia. Un buon master spesso si appoggia ai background creati dai
giocatori per sfornare avventure su misura. Perdere un personaggio giocante,
dunque, è un evento importante, che merita una giusta narrazione. La morte
capita, perché le avventure sono pericolose. Se capitasse troppo spesso, però,
sarebbe un problema, tanto per il giocatore che per il master. Questo almeno
nel presupposto che stiamo parlando di un gioco di ruolo dove la vita ha un
valore.
Aspetta, quindi mi stai dicendo che esistono giochi di ruolo
dove la vita (di un personaggio) non vale nulla?
Strano a dirsi ma si.
In un gioco di ruolo horror (ad es. il richiamo di Cthulhu) è molto probabile
che un personaggio faccia una brutta fine, è tipico del genere in quanto tale. Sapendo
di poter morire con una certa facilità, nessun giocatore se la prenderà a male
se il proprio investigatore venisse divorato da un demone, ma al tempo spesso è
improbabile che un giocatore perda molto tempo nel dettagliare personalità e
background al suo personaggio. Bastano poche informazione e si è pronti a
giocare; più il personaggio riuscirà a sopravvivere, più verrà elaborato (in
gioco). Esistono altri giochi di ruolo dove la vita (delle persone e quindi dei
personaggi) ha poco valore: in Cyberpunk, ad esempio. In questa ambientazione
futuristica, la violenza è così diffusa che la vita o la morte hanno poco
valore, puoi essere aggredito per una inezia e tutti girano armati fino ai
denti. L’uso delle armi da fuoco e la scarsa considerazione per la vita genera
un alto tasso di mortalità, per cui i giocatori sono ben consapevoli di poter
morire ad ogni sessione. Non è un caso che la generazione del background
avviene tramite tabelle casuali: servono a creare rapidamente un personaggio … e
il suo eventuale rimpiazzo, in caso di prematura dipartita. Infine, esistono
giochi di ruolo dove non è tanto l’ambientazione a rendere probabile la morte
di un personaggio, quanto le regole di combattimento. Ne sono un esempio giochi
come Stormbringer della Chaosium o il più recente The Witcher. Le regole di combattimento
di questi giochi sono così letali che ogni battaglia è potenzialmente fatale,
senza considerare la possibilità di ferite debilitanti permanenti che, di
fatto, azzoppano il potenziale del personaggio. Vero che si tratta di
ambientazioni pericolose, però la differenza qui è tutta nelle regole (anche
Warhammer ha un’ambientazione pericolosa ma le sue regole garantiscono una
maggior sopravvivenza).
Torniamo allora ai giochi dove la vita ha maggior valore. La
morte di un personaggio giocante dovrebbe avvenire raramente ma come
controllare questa eventualità? Si tirano dei dadi, dopotutto …
Assolutamente, il
fattore casuale è sempre presente e a volte un personaggio può trovarsi
condannato da mera sfortuna. Il gioco di ruolo si basa su un paradosso: i
personaggi cercano l’avventura ma l’avventura è pericolosa, quindi possono
morire ma, ovviamente, nessun giocatore vuole vederli morire. Come se ne esce?
Bisogna capire che il gioco di ruolo non simula la realtà di tutti i giorni ma
una realtà eroica. I personaggi non sono persone comuni, sono come gli eroi di
film o fumetti, molto in gamba, in grado di cavarsela in tante occasioni.
Nonostante ciò anche loro possono morire. Quello che importa davvero è che non
si tratti di una morte banale: morire perché il master mette in fila dei tiri
strepitosi in uno scontro con un semplice goblin, non è un granché. Morire
bloccando l’esercito nemico su un ponte, permettendo ai compagni di fuggire e
salvare la principessa garantisce la gloria eterna. Premettendo che il master non dovrebbe mai guidare la storia,
decidendo chi vive e chi muore, è perfettamente lecito “barare” a favore dei
giocatori ogni tanto. Se un “onesto” tiro di dado tramuterebbe la scena in un
massacro, nessuno può rimproverare al master di aver ignorato il risultato e
salvato il gruppo. Queste cose devono avvenire in segreto, i giocatori non
devono avere la percezione di quello che è successo, per due ovvi motivi.
Primo: non è divertente, ai giocatori non piace sentire di non avere il
controllo sul proprio personaggio; secondo: se salvi i giocatori una volta (e
lo capiscono), potrebbero farsi aspettative circa salvataggi futuri, e pure
questo è da evitare. Barare a favore dei giocatori non dovrebbe avvenire troppo
spesso: i personaggi in genere sono abbastanza forti e competenti per cavarsela
da soli. Se in ogni scontro si deve barare per farli vincere, è chiaro che il
problema è nel bilanciamento del combattimento. Questo ragionamento ha alla sua
base la premessa che i giocatori si comportino in maniera saggia, evitando
scontri già persi in partenza o mosse stupide o autolesioniste. Se ciò avviene
(e succede più frequentemente di quanto si pensi), il master non ha nessun
obbligo di salvare i personaggi: si lanciano i dadi e si resta a vedere cosa
succede. Capire quando agire e quando non farlo è un’arte che dipende da molti
fattori, non ultimo i desideri e i gusti del proprio gruppo. L’esperienza, il
gioco costante e, perché no, gli errori commessi, vi aiuteranno a definire le
vostre linee guida personali.
Che succede quando il gioco prevede la resurrezione del
personaggio? Questi discorsi sono ancora validi? Quanto dovrebbe essere
difficile tornare in vita?
Molti giochi di ruolo
prevedono la possibilità di tornare in vita con lo stesso personaggio: nei giochi
fantasy è la magia a riportare in vita i morti, in quelli di fantascienza la
tecnologia avanzata, come la clonazione, la rigenerazione estrema o la
trasformazione in cyborg. Non conta il sistema, conta il fatto che il
personaggio può tornare in vita. E’ innegabile che, da un certo punto di vista,
la resurrezione svilisce la morte e il concetto di pericolo delle avventure.
Immaginate Boromir tornare in vita dopo il suo eroico sacrificio nel difendere
Merry e Pipino, la credibilità e il pathos della scena risulterebbe annientato.
Pensate ai super eroi americani: muoiono e risorgono da anni come se niente
fosse, al punto che l’annuncio della loro morte non fa assolutamente né caldo
né freddo ai fan, sanno benissimo che torneranno dopo pochissimo. Tutto questo
per dire che, personalmente, reputo l’espediente della resurrezione
profondamente sbagliato. Ma per amor di conversazione, ammettiamo che sia
possibile. In genere, l’accesso a questo potere avviene ad alti livelli di
gioco, chi muore prima si trova in una sorta di limbo: il gruppo non ha le
risorse per resuscitare il proprio compagno morto ma il giocatore sa che esiste
tale possibilità, quindi si rivolge speranzoso al master. La resurrezione
potrebbe arrivare come ricompensa da un personaggio non giocante di grande
potere oppure il master potrebbe deviare temporaneamente la storia della
campagna in corso su una “side quest” dedicata a far tornare in vita il morto. Si
pongono però due problemi. Il primo è una questione di equità: è possibile che
si trovi un escamotage per far tornare in vita il personaggio ma che succederà
quando sarà un altro a morire e non ci sarà nulla a cui appellarsi? E’ giusto
che un personaggio muoia diverse volte e torni in vita perché l’avventura prevede
questa ricompensa, mentre un altro personaggio che ha la sfortuna di morire in
un’avventura dove non c’è questo bonus resti morti per sempre? Quante volte è
giusto resuscitare un personaggio prima che la cosa diventi ridicola? Secondo:
è giusto che un master debba mettere da parte la sua campagna (che è anche la
storia di tutto il gruppo) per riportare in vita un giocatore? Di nuovo si pone
una questione di giustizia: quante volte è lecito lasciar perdere tutto per
salvare un personaggio? Chi muore in un certo momento della storia, magari un
po’ fiacco, è più fortunato di chi muore ad un passo dallo scontro finale,
quando non c’è più tempo di interrompere la storia. C’è chi direbbe “pazienza,
la vita non è giusta”, è una filosofia valida. Il gioco di ruolo, tuttavia, è
un gioco collettivo, i giocatori sono sullo stesso piano e potrebbero nascere
delle grane. Nella mia carriera da master ho visto giocatori litigare per
inezie, posso solo immaginare quando è in ballo la vita del personaggio quello
che può succedere. Per tutti i motivi di cui sopra, e cioè la credibilità del
gioco e questioni di equità, penso sia meglio lasciar stare la resurrezione,
eliminandola dai giochi che ne fanno uso.
Ok, la resurrezione incrina la credibilità e il pathos della
storia, ma non c’è davvero niente che si può ideare, a livello di regolamento,
per aumentare le chance di sopravvivenza dei personaggi?
Ci sono molte
meccaniche, nei vari di giochi di ruolo, che servono ad evitare la morte dei
personaggi. Punti fortuna che permettono di rilanciare i dadi (del giocatore o
del master stesso), bonus ai tiri contro la morte, regole che considerano i
personaggi come morenti nei round successivi al colpo fatale, allo scopo di
permettere al gruppo di tentare una cura sullo sfortunato compagno, etc. In
genere, la caratteristica di queste regole è che sono consumabili o limitate: i
punti finiscono, il bonus non garantisce successi automatici, il tempo in cui
si è considerati morenti dura poco. Personalmente, il sistema che ho sempre
preferito è quello di Warhammer, ovvero i punti fato. Ogni personaggio ha un
certo numero di punti fato: quando subisce una ferita mortale ne spende uno e
si salva la vita. Il master dichiara cosa succede in realtà (ad esempio il
personaggio crolla a terra, creduto morto ma in realtà ancora vivo) e la storia
prosegue. Il master non ha il potere di infierire su un personaggio dopo che ha
speso un punto fato, altrimenti questi terminerebbero subito, ma sicuramente
può metterlo in brutte situazioni, come essere preso prigioniero. I punti fato
sono pochi e dannatamente utili, quando terminano non c’è più niente fra il
personaggio e la morte. In genere si usano nelle prime avventure, quando i
personaggi non sono ancora molto forti o competenti: un uso oculato e un po’ di
fortuna permette al personaggio di crescere di potenza, potendo poi contare
sulle proprie forze per sopravvivere. La seconda edizione di Warhammer ha
introdotto la possibilità di guadagnare altri punti fato, ma per farlo è
necessario compiere atti davvero eroici, pertanto il loro numero tende a
rimanere basso. Ecco, se state giocando ad un gioco di ruolo che utilizza la
resurrezione, potete eliminarla ed introdurre al suo posto i punti fato.
Dipende dal vostro stile di gioco ma se, come me, odiate che i cancelli del
regno della morte abbiano i cardini girevoli come le porte di un saloon, è un
buon compromesso.
Se si parla di morte del personaggio, inevitabile pensare ai
punti ferita. Ma cosa rappresentano davvero?
Ogni gioco di ruolo ha
una statistica che misura la vitalità e la resistenza di un personaggio. Che si
chiamino punti ferita, stamina, resistenza, punti vita, quando questo valore è
prossimo allo zero spesso ci sono conseguenze negative per il personaggio, come
penalità ai tiri, una riduzione del numero di azioni che può compiere e simili.
Quando arriva o scende sotto lo zero, il personaggio è morto. Istintivamente, è
facile figurarsi questa riserva di energia come la barra di vita di un
videogioco: man mano che un personaggio subisce colpi, questa si abbassa, fino
alle estreme conseguenze. Questa descrizione è abbastanza accurata per quei
giochi dove i personaggi sostanzialmente evitano di essere colpiti, dove ogni
colpo che va a segno lascia conseguenze pesanti e in cui il valore della
riserva vitale non è molto elevata, a significare che pochi colpi ben piazzati
sono sufficienti ad uccidere una persona. Tutto ciò rappresenta (più o meno
fedelmente) la realtà delle cose: bastano uno o due colpi di spada ad uccidere
un uomo e i combattenti evitano perlopiù di essere colpiti, la loro difesa si
basa sulla velocità. Di più, questo modo di vedere le cose è conseguente anche
alla “realtà” della fiction: gli eroi di film, telefilm, fumetti etc. evitano
di essere colpiti, perlomeno da attacchi mortali (calci, pugni e manga fanno
eccezione). Aragorn non viene praticamente mai colpito, mentre Boromir muore
con 4 frecce nel petto ma già la prima era letale. Purtroppo in Dungeons &
Dragons le cose non funzionano in questa maniera e questo lascia spesso confusi
i nuovi giocatori.
Perché? Cosa rappresentano i punti ferita in D&D?
Dungeons & Dragons
è un gioco che misura in livelli il potere dei personaggi. Man mano che salgono
di livello i personaggi aumentano i loro punti ferita: all’inizio della carriera
ne hanno una decina, alla fine un centinaio, anche duecento e più per i
guerrieri. Il danno di una spada è rappresentato dal dado a otto facce (d8). Al
primo livello, due colpi di spada sono fatali e le cose apparentemente vanno
come nel mondo reale (anche quello della fiction). Al ventesimo livello, un
guerriero con 200 punti ferita può incassare decine di colpi di spada (o
attacchi molto più forti, come il soffio del drago) senza troppi problemi.
Tutto ciò non è certamente realistico. Alcuni difendono lo status quo asserendo
che D&D in se non è realistico: non lo sono i personaggi, non lo sono i
loro poteri, non lo sono i mostri, c’è la magia … insomma perché aspettarsi che
le cose siano realistiche? Questo modo di ragionare è sbagliato, la verosimiglianza
deve esistere anche nel mondo di gioco. D&D non nega le leggi della fisica:
se scagli un sasso quello cade per terra, la forza di gravità esiste sulla
Terra come su Toril (il mondo dell’ambientazione Forgotten Realms). La magia (pure
essa ha delle regole, non dimentichiamolo) permette di violare alcune regole
naturali ma rientra tutto nei parametri del gioco: senza magia o altro, le cose
vanno (o meglio, dovrebbero andare) come nella realtà. Per risolvere il
problema, pertanto, è necessario andare più a fondo e capire esattamente cosa
sono i punti ferita in D&D e cosa rappresenta un attacco andato a segno.
Continua …
Certo. I punti ferita
di D&D non rappresentano la vitalità dura e pura: sono invece un misto di
resistenza, concentrazione, capacità di evitare danni seri e volontà di
continuare a combattere. Finché un personaggio ha anche solo 1 punto ferita, il
suo personaggio è in grado di lottare senza problemi. I punti ferita, pertanto,
sono una sorta di cuscinetto fra la salute e la morte. In D&D un
personaggio è considerato ferito gravemente quando ha finito i punti ferita e
cioè giace morente al suolo. Ogni turno deve fare un tiro salvezza contro la
morte, al terzo fallimento è spacciato. Anche se non ci sono penalità alle
azioni, si potrebbe considerare ferito o molto scosso un personaggio che sia
rimasto con pochi punti ferita, una decina diciamo, perché è molto probabile
che un ulteriore colpo lo porti a zero, però in termini di regole il
personaggio è ancora abile e in grado di difendersi. La capacità del
personaggio di evitare danni seri cresce con il livello: all’inizio bastano un
paio di colpi per mandarlo a terra morente, ai massimi livelli serve molto di
più. Considerare i punti ferita come volontà di combattere e capacità di
evitare danni mortali è però solo una faccia della medaglia. Se un attacco
rappresenta un colpo andato a segno, come spiegare il fatto che personaggi di
alto livello possono sopportare decine di colpi? Il punto è che, come i punti
ferita non sono la vitalità in senso stretto, neppure un attacco andato a segno
(che infligge danni, insomma), rappresenta un vero e proprio colpo. Si parla
sempre di colpi di striscio, di urti sullo scudo o sull’armatura, di un venire
meno della capacità di continuare a lottare ma non di colpi veri e propri. Solo
il colpo finale, quello che porta a zero punti ferita, può essere descritto con
l’essere infilzato da una lama. Tutti gli attacchi precedenti hanno solo
indebolito il personaggio e, da un punto di vista realistico-descrittivo, non
rappresentano vere ferite o impatti significativi. Pensiamo, per esempio, al
soffio di un drago. Parliamo di fuoco rovente ad altissima temperatura, nessuno
può sopravvivere ad un inferno di fuoco. Il personaggio che subisce tale
attacco non viene realmente colpito dalla fiamma in maniera diretta, neppure se
fallisce il tiro salvezza: significa semplicemente che la fiamma gli è passata
molto vicina, procurandogli qualche ustione, togliendogli il respiro,
affaticandolo ma niente di più serio. Solo il soffio di fuoco che porta il
personaggio a zero punti ferita potrebbe essere descritto con il personaggio
che viene arso vivo. Per riassumere, quindi, i punti ferita non rappresentano
la vitalità bensì la capacità di continuare a lottare senza impedimenti e i
colpi andati a segno (tranne l’ultimo, quello letale) non sono altro che taglietti,
strappi del tessuto, urti sull’armatura, stanchezza, indebolimento ma niente di
più grave. Solo in quest’ottica è possibile dare un po’ di verosimiglianza al
sistema di ferite di Dungeons & Dragons.