domenica 15 giugno 2025

Perchè Tolkien non è riuscito a terminare il Silmarillion

Cari amici del blog, fedele alla promessa di portarvi nuovi articoli, mi presento a voi con un pezzo dedicato a Tolkien e alla sua mitologia che, spero, troverete interessante. Tutti quelli che hanno un minimo di dimestichezza con la Terra di Mezzo e le sue storie sanno che Tolkien pubblicò “Lo Hobbit” nel 1936 e “Il Signore degli Anelli” tra il 1954 e il 1955 ma, nonostante abbia lavorato sul Silmarillion sin dal 1917, non riuscì mai a produrne una versione definitiva da dare alle stampe, impresa che riuscì solo al figlio Cristopher nel 1977, quattro anni dopo la morte del padre. Diciotto lunghi anni passarono tra la pubblicazione del Ritorno del Re (libro conclusivo del Signore degli Anelli) e la morte del nostro amato professore, diciotto anni privi di pubblicazioni di rilievo e in cui si ridussero gli impegni accademici che potessero distrarlo dal compito di dare una versione finale e definitiva al Silmarillion. Perché, allora, Tolkien non riuscì a portare a termine la sua opera? Perché un autore capace e meticoloso come Tolkien, apparentemente senza altri impegni gravosi, non riuscì a dare una sistemazione definitiva a del materiale su cui lavorava da decenni? Sono certo che ogni vero fan prima o poi si è posto questa domanda, a cui tenterò di dare una risposta, basandomi sulla biografia del professore di Oxford e sugli scritti di altri autori, in particolare Tom Shippey (ogni appassionato di Tolkien dovrebbe leggere almeno una volta la sua monumentale opera “La via per la Terra di Mezzo”).

Come ogni cosa nel mondo reale (il mondo primario, direbbe Tolkien), le cose non sono mai semplici: diversi motivi, saldandosi insieme, hanno cospirato contro il nostro professore al punto da rendergli impossibile terminare la sua opera. Per comodità di esposizione, distinguerò questi motivi in due macro categorie ovvero quelli personali e quelli puramente letterari. I motivi personali sono un coacervo di situazioni dovuti all’età avanzata, alla perdita dei suoi amici storici, all’incapacità di imporsi una rigida disciplina di scrittura, al continuo procrastinare delle cose e nel tempo speso scrivendo lettere di risposta agli ammiratori. Tolkien non era più un giovincello, e già la scrittura del Signore degli Anelli gli costò diversi anni. In un contesto caratterizzato da un lento declino delle sue forze e dall’incapacità di forzarsi al tavolo di scrittura, il genio del professore si disperse in lettere o nella sistemazione dei suoi precedenti scritti. Le lettere (agli amici, agli editori e ai fan) in cui spiega o chiarisce determinati punti dei suoi romanzi sono interessantissime da leggere, ma resta ineludibile il fatto che non riuscì a terminare il Silmarillion, l’opera che più gli stava a cuore.

Un attento lettore potrebbe notare che non mancarono del tutto le energie a Tolkien, solo che le indirizzò dalla parte sbagliata: chiarire e spiegare il pregresso piuttosto che impegnarsi nel nuovo. Questa riflessione tira in ballo la seconda categoria, quella dei motivi letterari. Forse senza rendersene conto, ma più probabilmente con piena coscienza, Tolkien si rese conto di essere finito in trappola, in un vicolo cieco letterario. I motivi letterari che si opponevano alla conclusione del Silmarillion si possono riassumere nella assenza degli hobbit, nella mancanza di profondità storica, nel rischio di dire o spiegare troppo e nella difficoltà di armonizzazione del suo Legendarium. Vediamoli uno per uno con attenzione.

Il problema dell’assenza degli Hobbit. Nei due libri de “Lo Hobbit” e de “Il Signore degli Anelli” gli hobbit non solo svolgono il ruolo di protagonisti ma fungono anche da intermediari fra il lettore e il mondo fantastico ideato da Tolkien. Gli hobbit sono l’incarnazione del lettore e della sua ignoranza della Terra di Mezzo: con la scusa di spiegare le vicende storiche ed attuali del suo mondo secondario agli hobbit, Tolkien può fare lo stesso nei confronti del lettore. C’è di più: gli hobbit sono dei protagonisti “moderni” e “borghesi”, che si trovano immischiati in faccende “antiche” ed “epiche”. Parte del fascino della narrazione tolkeniana deriva proprio dalla costante interazione fra questi due mondi apparentemente opposti, il buonsenso hobbit contrapposto al dramma e all’epicità. Nelle storie della Prima e della Seconda Era, che sono il cuore centrale del Silmarillion, non ci sono hobbit e senza la loro presenza viene meno anche una sicura guida per il lettore, senza considerare la stranezza in sé della mancanza di hobbit in un’opera che va a collegarsi agli altri romanzi, dove invece la loro presenza è fondamentale. 

Mancanza dell’impressione di profondità della storia. Sia “Lo Hobbit” che “Il Signore degli Anelli” sono ambientati temporalmente alla fine della Terza Era della Terra di Mezzo e sono il culmine di vicende iniziate millenni prima. Queste vicende non vengono esposte chiaramente ma appena accennate tramite racconti o poesie. L’effetto finale che si ottiene è quello di una incredibile profondità storica, conferita proprio da questo passato mitico appena accennato, che lascia nel lettore la curiosità (insoddisfatta) di saperne di più. Il Silmarillion, andando a svelare questo passato leggendario, non solo avrebbe potuto rovinare tale effetto ma, e questo è il problema più grande, non avrebbe potuto beneficiare di questo effetto di profondità, proprio a causa della sua narrazione cronologica che inizia dalla creazione del mondo!

 

Il rischio di dire o svelare troppo. Questo punto è un po’ complesso e va spiegato bene. Gli eroi di Tolkien affrontano pericoli e minacce senza sapere come andrà a finire, ma soprattutto senza poter contare su aiuti che non dipendano dai loro alleati o dal loro stesso coraggio. In tutta la narrazione de “Lo Hobbit” e de “Il Signore degli Anelli” ci sono dei passaggi in cui il caso sembra favorire i nostri eroi, come il vento nelle vele della flotta di Aragorn che gli permette di arrivare in tempo sotto Minas Tirith o quando Frodo e Sam trovano un piccolo ruscello di acqua potabile a Mordor. Leggendo il Silmarillion veniamo a conoscenza dei Valar e delle loro sfere di influenza. Scopriamo così, dunque, che l’aria è il dominio del Supremo Manwe mentre le acque appartengono a Ulmo, il Signore dei Mari. Ciò che prima appariva semplicemente come un caso, la lettura del Silmarillion può trasformarlo in un chiaro aiuto soprannaturale. In se non c’è nulla di male, nella storia ci sono effettivamente degli aiuti in tal senso, come le Aquile che salvano Gandalf o la Fiala di Galadriel impugnata da Sam contro Shelob. Tuttavia, se l’influenza occulta dei Valar venisse svelata, si potrebbe iniziare a pensare che il viaggio di Frodo e Sam a Mordor non sia così disperato, poiché costantemente vegliati da un potere superiore, con il rischio di far venire meno quel tipo di “eroismo nordico” così caro a Tolkien, ed anche di infastidire il lettore con queste rivelazioni. La lettura de “Lo Hobbit” e de “Il Signore degli Anelli” lascia intendere che ci sono delle potenze superiori, ma non al punto di svelare direttamente se taluni eventi accadano per caso o perché diretti dal destino, il lettore non potrà mai averne certezza. Il Silmarillion, invece, con le sue spiegazioni e rivelazioni, rischia di rovinare questo stato di incertezza, togliendo valore e coraggio alle scelte dei personaggi.


Difficoltà di armonizzare il Legendarium. La Terra di Mezzo descritta ne “Lo Hobbit” e ne “Il Signore degli Anelli” è un mondo ricco di nomi e personaggi senza eguali. Il successo de “Il Signore degli Anelli”, in particolare, si fonda su un immenso serbatoio di fatti, nomi ed eventi perfettamente incastrati fra di loro. Il Silmarillion avrebbe dovuto non solo eguagliare tale complessità, ma anche porsi in totale continuità con esso, senza contraddire quanto già scritto. Il Tolkien degli ultimi anni, con le spiegazioni fornite nelle sue lettere e i tentativi continui di riscrivere il Silmarillion, appare devoto ad un tentativo di razionalizzazione e classificazione della sua opera. La ricchezza di nomi e di fatti delle sue precedenti opere, tuttavia, rendeva quasi impossibile riuscire in questa impresa, senza considerare il rischio, come spiegato al punto precedente, di dire o svelare troppo, oltre ad esporsi a potenziali contraddizioni (es. se i Nazgul hanno timore dell’acqua, come si legge nei Racconti Incompiuti, come hanno fatto ad attraversare tutto l’Eriador per dare la caccia a Frodo?). Il problema degli orchi è un altro esempio di questa difficoltà. Dalla lettura delle prime opere si evince chiaramente che gli orchi svolgono il semplice ruoli di “carne da cannone” per gli eserciti del male, e vengono uccisi dagli eroi senza troppi problemi o rimorsi. Nel Silmarillion leggiamo però che il male non può creare, ma solo imitare, e scopriamo che gli orchi non sono altro che elfi corrotti. Questo però significa che neppure gli orchi sono malvagi dall’origine e che anche loro potrebbero essere redenti. Tolkien si rese conto del problema e da alcuni scritti si può notare come stesse elaborando una soluzione, che però non vide mai la luce.

 

A questo punto, credo vi sia chiaro come la pubblicazione del Silmarillion come un corpo uniforme ed armonico con le sue precedenti opere fosse un’impresa ardua, troppo ardua persino per lo stesso Tolkien. Un’impresa che riuscì al figlio Christopher, sia pure al rischio di inevitabili tagli e manipolazioni che il padre non sarebbe riuscito a fare. Di tutto ciò si deve comunque essere grati a Christopher, perché grazie a lui abbiamo potuto fare luce sugli eventi dei Tempi Remoti e restare affascinati da figure come Feanor, Beren e Turin.

1 commento:

  1. Grazie per questo articolo, che assume a dire il vero le dimensioni di un piccolo saggio. Come siamo ormai abituati, la tua penna agile e analitica ci mostra con precisione le varie sfaccettature della questione che di volta in volta ti proponi di trattare. Quindi se è vero che dobbiamo ringraziare Christopher per aver dato veste compiuta al Simarillion, è anche vero che dobbiamo ringraziare te per questo articolo di critica letteraria con il giusto pizzico di umorismo nerd.
    Edoardo

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