venerdì 13 dicembre 2013

Witchcraft






Gli amanti delle ambientazioni urban-horror non dovrebbero lasciarsi sfuggire questo titolo, uscito negli USA nel 1996 e pubblicato in Italia solo 10 anni dopo. Witchcraft è un gioco di ruolo di stregoneria moderna, dove esseri umani con grandi poteri magici, noti come Adepti, lottano con creature soprannaturali che si nascondono nelle ombre delle metropoli moderne, cercando al tempo stesso di sventare l’arrivo del Tempo del Giudizio, una catastrofe che potrebbe distruggere l’era dell’uomo. Questa interessante ambientazione sfrutta il regolamento unisystem, ideato da C. J. Carella, parzialmente ispirato al sistema GURPS, ma decisamente più snello e facile da utilizzare. In Witchcraft i giocatori ricoprono il ruolo di Adepti, esseri umani con capacità soprannaturali come la Magia, la Negromanzia, la Vista (il potere della mente) o l’Ispirazione Divina (il potere della fede di compiere miracoli); tuttavia possono anche decidere di impersonare dei Bast, felini mutaforma con grandi poteri mistici, oppure dei semplici Profani, normali esseri umani che sfidano l’ignoto solo con il coraggio e il piombo delle loro pistole. Quale che sia il ruolo scelto, ogni personaggio apparterrà ad un’Alleanza, cioè una congrega composta da persone dotate di poteri sovrannaturali come i loro. Tutte le Alleanze condividono il comune obiettivo di salvaguardare l’ignara umanità da minacce sovrannaturali, sebbene ognuna di esse persegua scopi ed interessi specifici. Troveremo così, ad esempio, l’Alleanza Wicca, i cui ranghi sono in massima parte formati da donne, la cui magia tende ad essere di natura curativa e protettiva, oppure i Rosacroce, congrega di maghi dedita alla raccolta della conoscenza ed esperti evocatori di spiriti di ogni genere. Ogni Alleanza è caratterizzata da un diverso modo di vedere la magia, e concede quindi dei vantaggi unici (in termini di gioco) ai suoi membri, oltre a fornire diversi background culturali che un giocatore può sfruttare nella creazione del suo personaggio. Naturalmente è possibile scegliere di non appartenere a nessuna Alleanza: questi personaggi, chiamati Solitari, seguono le più disparate tradizioni magiche e tendono a rifuggire gerarchie e strutture sociali complesse.

In Witchcraft i personaggi vengono creati usando una riserva di punti che il giocatore può spendere tra varie categorie: attributi, abilità, qualità e metafisica (poteri magici). Gli attributi sono le caratteristiche essenziali del personaggio (come Forza, Destrezza, Intelligenza, ecc.) e sono divisi in attributi fisici e mentali. Le abilità rappresentano le conoscenze del personaggio, da ciò che sa fare a ciò che ha imparato a scuola o nella vita, capacità come sparare, usare il computer o muoversi furtivamente. Le qualità sono caratteristiche uniche del personaggio e ve sono di vario tipo: la ricchezza, ad esempio, è una qualità sociale, mentre la resistenza al dolore è fisica. Sono presenti anche le qualità metafisiche, da non confondere con la metafisica vera e propria: le qualità metafisiche sono capacità intrinsecamente magiche, come ad esempio Anima Antica, che indica come il vostro personaggio è la reincarnazione di persone vissute precedentemente, mentre la metafisica vera e propria indica l’arte magica o mistica posseduta dal personaggio. Questi potrà essere un mago, in grado di lanciare potenti incantesimi, oppure un veggente dalle incredibili facoltà mentali, o magari un ispirato divino, capace di compiere miracoli con la forza della sua fede. Per ottenere qualche punto in più da spendere in fase di creazione del personaggio, il giocatore potrà scegliere di prendere qualche Difetto, ovvero qualche svantaggio di natura fisica, mentale o sociale. Scegliere un Difetto non solo ha un’utilità pratica a livello di regolamento (ottenere qualche punto in più da spendere dove si desidera), ma può essere utile per caratterizzare meglio il personaggio, donandogli un tocco di profondità e realismo. Il resto del manuale è dedicato alla descrizione di varie creature soprannaturali, entità come spiriti, fantasmi, apparizioni, elementali, demoni e le terribili divinità folli (entità distruttive simili a quelle dei Miti di Cthulhu). Come possibili antagonisti dei personaggi, però, non ci sono solo mostri e creature, ma anche congreghe di maghi e stregoni malvagi, note come Alleanze Oscure, oppure organizzazioni segrete dedicate a cospirazioni in stile X-Files, come la Combine. 

Il bello di questa ambientazione, tra le altre cose, è la sua capacità di integrare situazioni e creature del genere horror e di quello fantasy in un contesto moderno e reale: il mondo di Witchcraft è la stessa terra dove viviamo noi ogni giorno, con una buona spruzzata di soprannaturale. Una serie di misteriosi omicidi ad opera di un maniaco o di un serial-killer nella nostra realtà, nel mondo alternativo di Witchcraft potrebbero essere l’indizio della presenza di un vampiro assetato di sangue. Durante l’investigazione i personaggi lasceranno lentamente il mondo reale della razionalità, per entrare in quello più oscuro del mistero e della magia. A questa interessante ambientazione in grado di mischiare horror, investigazione ed avventura, si unisce un sistema di gioco semplice ed efficace. In particolare, il metodo a punti di creazione del personaggio è molto flessibile ed offre una discreta varietà di scelta, mentre il sistema di risoluzione delle azioni è rapido e facile da usare. Unico difetto, forse, l’eccessiva mortalità, dato il realismo che caratterizza le regole. In ogni caso, un gioco che mi sento di consigliare caldamente a chiunque ami l’horror e il soprannaturale, come pure a coloro che vogliono prendersi una pausa dalle onnipresenti ambientazioni fantasy.

martedì 3 dicembre 2013

Tutto quello che avreste voluto sapere su Ken il Guerriero ... (prima parte)



… e che non avete mai osato chiedere! Ben ritrovati a tutti voi. Grazie alla recente ristampa della Panini, ho avuto la possibilità di rileggere un manga davvero fondamentale della mia adolescenza. Sto parlando di Hokuto no Ken, meglio conosciuto in Italia come Ken il Guerriero grazie al cartone animato che fra gli anni ’80 e ’90 ha letteralmente fatto impazzire la mia generazione. Ken il Guerriero è stato il primo manga che abbia mai letto, all’epoca avevo 15 anni e andavo in prima liceo. Pubblicato originariamente da Granata Press, Hokuto no Ken fu uno dei primi fumetti giapponesi ad arrivare in Italia: oggi parlare di manga e anime è una cosa del tutto normale, ma 20 anni fa nelle edicole c’erano solo fumetti Bonelli e americani. Fu naturale scegliere un titolo che era già famoso grazie al cartone, e fu (anche) il suo successo ad aprire la strada per l’invasione manga che sarebbe seguita. Sono affezionato all’edizione Granata per ovvi motivi sentimentali ma già all’epoca, tuttavia, la sua traduzione mi sembrava artificiosa, oltre che poco chiara in diversi punti. Negli anni ci sono state diverse ristampe ad opera di editori come Star Comics e D-Visual, ma è stato solo in occasione della recente edizione Panini che mi sono riavvicinato al manga, e devo dire che ne è valsa la pena. Mi sono gustato le imprese del maestro di Hokuto come mai prima d’ora, finalmente in grado di comprenderne ogni sfumatura grazie ad una traduzione all’altezza dell’opera. Tetsuo Hara e Buronson, gli autori dell’opera originaria, nel 2001 hanno dato il via ad una nuova serie, Soten no Ken, che si colloca temporalmente prima dell’altra, praticamente un prequel. Con il titolo “Ken il Guerriero: le origini del mito”, fra il 2004 e 2011, la Panini ha pubblicato quest’opera anche in Italia. Il mondo di Kenshiro e della Divina Scuola di Hokuto si è così ingrandito, diventando più profondo ma anche più caotico. Diciamo la verità: già la serie originale, a livello di continuity, presentava notevoli incongruenze, e il prequel, lungi dal colmare le lacune, ha complicato ulteriormente le cose. In questi articoli voglio tentare di mettere ordine nel caos, cercando di chiarire i punti oscuri dei due manga, disponendo in ordine cronologico i vari avvenimenti. 



Prima di cominciare, tre preziosi avvertimenti: primo, è banale a dirlo, ma tutti gli articoli sono un gigantesco spoiler della saga di Ken il Guerriero! Questi pezzi sono dedicati agli amanti della saga del maestro di Hokuto e presuppongono una buona conoscenza degli eventi e dei personaggi. Secondo: per entrambe le serie, a livello terminologico, mi appoggerò all’edizione Panini, ma cercherò di venire incontro anche a chi ha visto solo il cartone o chi ha letto la serie classica con un altro editore. Terzo: come ho già detto, nell’esporre i fatti ci troveremo davanti a parecchie incongruenze. Alcune possono essere risolte senza troppe difficoltà, altre no. In questo caso darò conto di tutte le possibilità, quindi sceglierò quella che mi pare più idonea. Sono dell’idea che bisogna rispettare il testo originale quanto più è possibile e che quando è necessario discostarvisi, è comunque opportuno scegliere un corso degli eventi che contraddica il meno possibile i fatti già noti e assodati. Sono consapevole di inoltrarmi in territori pericolosi e altamente soggettivi, ma cercherò di motivare ogni scelta in maniera rigorosa. Quanto al perché voglia cimentarmi in una simile impresa … beh, non credo di essere l’unico ad aver avuto una vera e propria venerazione per questo manga. Questi articoli sono un omaggio, un atto di amore a qualcosa che ha definito nel bene e nel male la mia adolescenza. E poi, che razza di nerd sarei se non fossi stuzzicato da questa impresa? 


Iniziamo dunque, e lo facciamo partendo dalla Divina Scuola di Hokuto. Si tratta di una scelta abbastanza ovvia: non solo Kenshiro ne è il successore, ma anche tutti i suoi più grandi avversari, come Raoh e Kaioh, appartengono a questa scuola. Anzi, si può dire di più: molti dei motivi che hanno opposto Kenshiro ai suoi rivali derivano strettamente tanto dalle regole di condotta della Divina Scuola di Hokuto quanto dai suoi rapporti con le altre scuole di lotta. Capirne le origini è di fondamentale importanza al fine di comprendere la trama stessa del manga. Kenshiro scopre le origini della Divina Scuola di Hokuto nella terra dei demoni, dopo essere entrato in contatto con una sacra stele lasciata li dai maestri precedenti. Tuttavia nella serie prequel Soten no Ken vengono aggiunti diversi dettagli che non collimano un granché con la versione presentata nella serie classica. E’ giunto il momento di sbrogliare questa matassa, e per farlo partiamo da molto lontano, precisamente da 4000 anni fa. Quando Falco, il successore dell’Imperiale Scuola di Gento si prepara a salpare alla volta della terra dei demoni, dice che in quella terra esiste una scuola che ha dato i natali ad Hokuto, Gento e Nanto, una scuola che vanta 4000 anni di storia. La terra dei demoni è ovviamente la Cina. Già nella serie classica era facilmente intuibile che fosse così: in uno dei primi capitoli, Bat dice a Kenshiro che Picche e la sua banda sono uomini di King (cioè Shin, il rivale in amore di Ken), e che controllano l’intera zona del Kanto. Grazie a questa precisazione geografica possiamo collocare le avventure postatomiche di Kenshiro in Giappone. L’ultimo mare rimasto al mondo, a detta di Falco, separa ciò che resta del Giappone dalla terra dei demoni, che pertanto può essere soltanto la Cina; la conferma verrà data esplicitamente in Soten no Ken. Questa scuola vecchia di 4000 anni non è ancora Hokuto, ma piuttosto una sorta di arte marziale originaria, una tecnica di lotta base dalla quale si origineranno in seguito non solo Hokuto ma anche Nanto e Gento; le arti marziali (reali) nascono in Cina, quindi non v’è da stupirsi di questo. In seguito, con la fondazione della stirpe di Hokuto, divisa in varie casate e dominate da quella che viene indicata come Casata o Dinastia Principale, viene alla luce una primitiva Scuola di Hokuto. 



Questo stile originario, noto come Soke, era dotato di potenti tecniche di difesa, ma era privo di tecniche mortali e non aveva alcuna conoscenza degli tsubo, ovvero i punti di pressione. Mancava inoltre della capacità di adattarsi ai colpi degli avversari e di replicare le loro tecniche. In ogni caso doveva essere uno stile di lotta molto efficace, dato che già allora la Casata Principale di Hokuto aveva il privilegio di difendere personalmente gli imperatori celesti della Cina, ma su questo punto, sul ruolo e sullo scopo della Scuola di Hokuto ci torneremo nel prossimo articolo. Circa 1800 anni fa, nel 220 d.C., la mancanza di un imperatore celeste e la divisione della Cina in tre nazioni (un’epoca nota come il periodo dei Tre Regni) fa precipitare il mondo nel caos. In questo momento storico estremamente travagliato e complesso, hanno luogo due eventi fondamentali: per prima cosa la scuola Soke si scinde in tre casate allo scopo di proteggere i generali delle tre nazioni in un cui la Cina era suddivisa. I generali erano Cao Cao del regno di Wei, Sun Quan del regno di Wu e Liu Bei del regno di Shu e, ve lo assicuro, sto parlando di veri personaggi storici; le tre casate prendono il nome da quello degli stessi generali: nascono così la Scuola Cao, Sun e Liu di Hokuto. Il secondo evento e più importante evento, è la nascita della Divina Scuola di Hokuto. I bonzi anziani della Casata Principale della Scuola di Hokuto ritenevano che la soluzione al caos in cui versava il mondo fosse la creazione di un’arte marziale suprema, superiore a tutte le altre, e che il comando di tale scuola dovesse finire nelle mani di una sola persona. Il problema era quello di individuare il giusto leader, che chiaramente doveva provenire dalla Dinastia Principale. Oka e Shume erano due sorelle appartenenti alla Casata Principale, e diedero alla luce un maschio nello stesso giorno, rispettivamente Ryuoh e Shuken. I bonzi, non riuscendo a decidere a quale dei due neonati affidare il futuro ruolo di successore, stabilirono di utilizzare la prova dei lupi al Piedistallo del Cielo: i bambini sarebbero stati abbandonati su questo sacro altare in balia dei lupi e delle avversità, e colui che sarebbe sopravvissuto sarebbe diventato il successore. Con questa prova i bonzi volevano che fosse il cielo stesso a decidere, eliminando contemporaneamente il rischio che ci fossero due pretendenti al ruolo di successore. Neanche a dirlo, si tratta di una prova estremamente crudele, analoga ad altre che si trovano in altri momenti della storia (ad esempio il test a cui Ryuken sottopone Raoh e Toki da bambini), ma giudicare questo aspetto del manga non è fra i miei scopi. Shume, la madre di Shuken, è gravemente malata: sa che non sopravvivrà neppure un anno, e il suo desiderio è che almeno suo figlio riesca a sopravvivergli. Di notte, in segreto, si reca al Piedistallo del Cielo e porta via suo figlio, chiedendo perdono al piccolo Ryuoh. I monaci, però, si accorgono dell’inganno e pertanto decidono che sarà Ryuoh il successore. Oka, scossa dall’amore materno di Shume, chiede ai bonzi di scegliere invece Shuken, gettandosi da una rupe affinché la sua volontà sia rispettata. In quel momento le nubi in cielo si aprono e una luce scende ad illuminare l’altare: la volontà del cielo è stata rivelata e i bonzi in lacrime acclamano Shuken come primo successore e futuro fondatore della Divina Scuola di Hokuto. Per la pericolosità delle tecniche che la neonata Scuola di Hokuto avrebbe dovuto possedere, ed anche per evitare che si potesse ripetere un triste evento come quello avvenuto nel corso della scelta del primo successore, fu deciso che la Divina Scuola di Hokuto sarebbe stata tramandata ad un’unica persona. Shuken, crescendo, si considerò figlio di entrambe le donne, tenendo sempre a mente il loro amore; Ryuoh, abbandonato dalla madre, avrebbe invece sempre inseguito quell’amore perduto, e lo stesso sarebbe avvenuto ai suoi discendenti, come Raoh, Toki ma soprattutto Kaioh. Lo scontro finale fra Kaioh e Kenshiro, oltre che una disputa per la supremazia delle scuole di Hokuto, è, alla luce di questi fatti, uno scontro di sentimenti: l’incapacità di Kaioh di accettare la perdita della madre, sacrificatasi per amore, lo spinsero ad abbracciare il male. Spetterà a Kenshiro, successore di una scuola che fa dei sentimenti la sua forza principale, abbattere Kaioh e redimere la sua anima.



La Divina Scuola di Hokuto, dunque, si trova ai nastri di partenza: ha trovato il suo leader e primo successore, Shuken, ma deve ancora diventare la più letale delle arti marziali. In base a quanto ci viene raccontato in Soten no Ken, la scuola della casa madre di Hokuto aveva solo colpi difensivi e difettava di colpi mortali. La vera svolta avviene quando Shuken riesce a diventare un allievo della Scuola Lunare di Seito. Questa terrificante arte marziale era praticata dagli Yuezhi, una tribù proveniente dall’Iran in cui confluirono gli antichi giudei, la quale si diffuse in alcuni territori dell’antica Cina oltre 2000 anni fa. Shuken riuscì a diventare un loro allievo tra la fine della dinastia Han e l’inizio del periodo dei Tre Regni, nel 220 d.C., in linea quindi con ciò che abbiamo visto sino ad ora. La Scuola Lunare di Seito faceva uso di tecniche mortali basate sull’uso dei punti di pressioni; essa risultava pertanto efficacissima in attacco, ma dotata di scarse difese, praticamente l’opposto della Scuola di Hokuto dell’epoca. Shuken si innamorò, ricambiato, di Yama, la sorella del maestro della Scuola di Seito: fu dunque dall’amore dei due che nacque la vera Divina Scuola di Hokuto, poiché fu la stessa Yama, con il suo corpo, ad insegnare a Shuken i punti di pressione. La Divina Scuola di Hokuto era pronta a diventare la tecnica assassina più micidiale del mondo, ma c’era un problema: affinché il suo status di arte suprema restasse tale, la Scuola Lunare di Seito doveva scomparire! I vecchi bonzi della scuola di Hokuto imposero a Shuken un triste compito, quello di eliminare il maestro della Scuola Lunare di Seito insieme ai suoi 12 discepoli, inclusa Yama. Con le lacrime agli occhi e nel nome della pace, Shuken uccise a tradimento gli adepti della Scuola di Seito, presentandosi infine di fronte a Yama con il cuore a pezzi. Yama si offrì spontaneamente ai colpi di Shuken, poiché aveva compreso il suo spirito e il suo intento: solo la Divina Scuola di Hokuto avrebbe dovuto serbare le terribili tecniche della Scuola di Seito, assicurando così la pace e la difesa dell’imperatore della Cina. Shuken però non ebbe cuore di ucciderla, soprattutto dopo aver saputo che lei era incinta di suo figlio; allora Yama si gettò da un rupe, così da compiere lei stessa ciò che Shuken non era in grado di fare. Shuken pensò fosse morta, ma così non era: per caso o per miracolo, Yama sopravvisse alla caduta senza un graffio, e diede alla luce il bambino. Gli Yuezhi le diedero la caccia, reputandola una traditrice, soprattutto per via del fatto che aveva tenuto il bambino, la raggiunsero e la circondarono. Senza via di scampo, Yama si uccise trafiggendosi con una spada, implorando la sua gente di non uccidere il bambino. Così fu, e la Scuola Lunare sopravvisse con il figlio di Yama; tuttavia i suoi discendenti crebbero odiando la Divina Scuola di Hokuto, reputando  (erroneamente) che Shuken avesse ucciso, oltre ai loro antichi maestri, anche la stessa Yama. La riappacificazione fra le due scuole avverrà nel 1935 a Ningbo, in Cina, fra Kenshiro Kasumi, il 62° successore della Divina Scuola di Hokuto, e Yasaka, maestro della Scuola Lunare di Seito.



Torniamo alla Divina Scuola e alla sua storia. Shuken riuscì a creare il kempo più potente di tutti, fondendo le tecniche difensive della scuola Soke di Hokuto e le micidiali arti assassine della Scuola Lunare di Seito. La forza della Divina Scuola di Hokuto, tuttavia, non è data unicamente dalle sue tecniche, ma anche dalla sua capacità di adattarsi all’avversario ed ai suoi colpi. La Divina Scuola è tanto una tecnica assassina che un’arte da campo di battaglia: assassina perché in grado di abbattere un uomo con un solo colpo sferrato dalle ombre, alla stregua di un sicario; adatta al campo di battaglia perché in grado di sopraffare un avversario in uno scontro faccia a faccia, adeguandosi alle sue tecniche, mai statica ma sempre mutevole e in grado di evolversi. Tornerò in futuro su tali argomenti, al momento voglio restare concentrato sulla storia della Divina Scuola di Hokuto. Come abbiamo già detto, le sue tecniche micidiali vengono trasmesse da un maestro ad un altro, secondo uno schema di maestro e discepolo. Questo non vuol dire che debba esserci un solo allievo; significa invece che soltanto uno (fra gli altri) verrà scelto quale depositario delle tecniche segrete della scuola e nominato successore. A ben vedere è quello che è successo nel manga: Ryuken insegnò le tecniche dell’Hokuto a 4 ragazzi: Raoh, Toki, Jagi e Kenshiro, ma fu solo quest’ultimo ad essere scelto quale successore. Il fatto che debba esserci una sola persona in grado di utilizzare e tramandare le tecniche della Divina Scuola di Hokuto in maniera legittima, fa si che tutti gli altri discepoli siano obbligati a rinunciarvi. Non è necessario che un tale divieto venga imposto con la forza: a Toki, per via della sua malattia, fu concesso di continuare ad usare l’Hokuto come una forma di medicina, e Koryu, rivale di Ryuken per il titolo di successore, lasciò tale ruolo a quest’ultimo e si ritirò dal mondo come eremita in maniera pacifica. Tuttavia può accadere che taluno non voglia rinunciare alle tecniche della Scuola di Hokuto: in questo caso deve essere il successore o il vecchio maestro a “sigillare il suo pugno”, ricorrendo a tecniche di manipolazione della memoria o addirittura spezzando le mani del ribelle. Ryuken tentò di cancellare la memoria a Raoh, ma fallì per via di un infarto che lo colse all’apice della battaglia, spianando così la strada alla vittoria di Raoh; Kenshiro sconfisse Jagi a duello, ma il suo buon cuore gli impedì di ucciderlo, permettendo a questi di fuggire, una decisione di cui si sarebbe in seguito pentito amaramente. 


La vicenda di Ryuken che adotta dei ragazzi al fine di trasmettere le conoscenze della Scuola di Hokuto mi dà l’opportunità di esaminare un’altra regola fondamentale ai fini della successione. Quando la Divina Scuola è priva di un successore, per qualunque motivo, è la scuola Liu di Hokuto a fornirla. Ryuken non aveva figli propri a cui trasmettere l’arte di Hokuto, per cui fu Jukei, maestro della scuola Liu (nota anche come Splendente Scuola o Arcana Arte di Hokuto a seconda dell’edizione del manga che avete) a mandare in Giappone da Ryuken i piccoli Raoh, Toki e Kenshiro. A questi tre si aggiunse poi Jagi, chiaramente il più debole dei quattro e del tutto inidoneo alla successione, ma vabbè, tutti possono sbagliare! Il ruolo svolto dalla Scuola Liu nel caso in cui la Divina Scuola non sia in grado di fornire da sola un successore è di fondamentale importanza. Che tale funzione venga adempiuta dalla scuola Liu non è un caso, poiché essa è stata fondata da Ryuoh in persona, cugino di Shuken e membro anche esso della Casata Principale di Hokuto. In questa maniera la successione “resta in famiglia”, ma va detto che tale regola è sempre stata vissuta dalla scuola Liu come un’umiliazione, e ciò non avrebbe mancato di far sentire le sue conseguenze, tramutando la scuola Liu in un’arte diabolica. Su tutto questo torneremo in seguito, poiché adesso voglio restare concentrato sulla Divina Scuola di Hokuto. Affinché l’aspirante successore della Divina Scuola possa essere confermato nel suo ruolo, deve lottare contro il maestro della scuola Liu in un duello rituale. Questo scontro prende il nome di Rito del Dono Celeste e si deve compiere davanti alla statua della sacra madre. La statua rappresenta l’amore materno di Oka e Shume da cui ebbe origine la Divina Scuola di Hokuto, e si trova a Ningbo, in Cina, nel palazzo principale del sacro monastero. Queste informazioni ci rivelano anche l’area della Cina in cui è nata la Divina Scuola di Hokuto, anche se vi sono delle incongruenze fra i due manga: in Soten no Ken, infatti, nello stesso edificio in cui si trova la statua della sacra madre, sono presenti anche le tombe dei successori della Scuola Liu, mentre nel manga originale si tratta di due palazzi separati e in un certo senso antagonisti. Il distacco fra i due luoghi non è soltanto fisico ma anche spirituale:  il luogo dove è nata la Splendente Scuola di Hokuto (la scuola Liu) e dove riposano i suoi defunti maestri è impregnato dell’odio di questi ultimi per la Divina Scuola, ed è il palazzo in cui Hio e Kenshiro si affronteranno. Tornando al Rito del Dono Celeste, va precisato che in 1800 anni la Divina Scuola di Hokuto non ha mai perso, e con lo stesso esito si conclude lo scontro fra Kenshiro Kasumi e Zong-Wu in Soten no Ken. Il rito celeste, tuttavia, non termina con il combattimento, lì si conclude solo la sua parte “fisica”: nascosta dentro la statua della sacra madre si trova una stele che è dedicata ai successori defunti della Divina Scuola. Toccando la stele il neo successore apprende tutta la verità sull’origine della sua scuola ma soprattutto le contromosse alle tecniche Soke della scuola di Hokuto primitiva. Come abbiamo già detto, la scuola Soke di Hokuto era stata sviluppata al massimo, al punto che non era ulteriormente migliorabile e pertanto le sue tecniche avevano perso efficacia in battaglia, dato che le contromosse erano ben note. Per questo motivo i monaci della Casata Principale decisero di creare la Divina Scuola di Hokuto; le tecniche Soke, considerate superate, non furono più insegnate, ma la loro conoscenza fu comunque tramandata grazie alla stele nascosta nella statua e per un motivo ben preciso: la Splendente Scuola di Hokuto (o scuola Liu) usava in maniera massiccia tali tecniche e un domani la loro conoscenza avrebbe potuto fare la differenza in uno scontro con la Divina Scuola di Hokuto, e ciò è esattamente quanto è avvenuto nello scontro tra Kenshiro e Kaioh. Ma cosa si celava davvero dentro la stele di Hokuto? A questo domanda risponde il manga Soten no Ken: al suo interno si trovava il monile contenente l’anima e lo spirito di Shuken, il primo successore. Yasaka, il successore della Scuola Lunare di Seito, possedeva un monile identico e speculare, con all’interno lo spirito di Yama, la donna amata da Shuken. Appresa la verità che Shuken non uccise Yama ma anzi la amò, Yasaka realizzò che il suo compito fosse quello di portare il monile con l’anima del primo successore della Divina Scuola di Hokuto alla torre santuario degli Yuezhi, affinché anche Yama potesse riposare in pace, ponendo in tal modo fine al rancore e all’odio fra le due scuole. Vi è di più: il monile di Yasaka, il cui nome è Yah, cioè dio in ebraico, si scopre esser stato parte del leggendario tesoro sparito dal sacro palazzo degli antichi ebrei, dimostrando così come il dio di Hokuto e il dio della Scuola Lunare di Seito fosse lo stesso. Per adesso mi fermo qui, ho già messo tantissima carne al fuoco; nella seconda parte parleremo delle tecniche più segrete della Divina Scuola di Hokuto, del suo rapporto con le altre scuole di Hokuto e di altro ancora.

giovedì 21 novembre 2013

Thor: the Dark World



Sono appena stato a vedere “Thor: the Dark World” e mi è venuta voglia di scriverne subito una recensione. Come mai? Forse penserete che mi è piaciuto così tanto al punto da consigliarvelo, ma in realtà non è così. A scanso di equivoci vi dico subito che non è vero neppure l’opposto, non è una cagata tipo “Wolverine: l’Immortale”, è un filmetto Marvel con azione e umorismo senza troppe pretese, perfettamente allineato ai film degli Avengers e di Iron Man. E forse per me è proprio questo il problema: il continuo umorismo che spunta fuori ad ogni momento mi ha rotto le palle! Capisco che allo spettatore occasionale piaccia, e che grazie a tale elemento gli Avengers hanno fatto centro al botteghino, ma se un film non si prende sul serio, non vedo perché dovrei farlo io. Come posso entusiasmarmi e partecipare emotivamente ad un film quando neppure i personaggi sullo schermo lo fanno? Se fra una scena di azione e l’altra (o anche all’interno delle stesse) si preferisce fare battutine, se si preferisce appiattire i personaggi al punto da renderli delle macchiette, da fan di Thor e dei fumetti Marvel io dico “no grazie, tenetevi pure questi supereroi cazzeggiatori”. Thor è un personaggio epico, da fantasy eroica e nei suoi fumetti non c’è uno straccio di umorismo: perché i suoi film non possono rispettare queste caratteristiche? E dire che il primo film mi era piaciuto parecchio, forse il migliore fra quelli dei Marvel Studio: il regista Kenneth Branagh, pur non essendo un lettore di comics, aveva capito quali erano i capisaldi intorno a cui far ruotare la storia di Thor: il suo conflitto con Loki, lo scontro fra padri e figli, tutti questi elementi avevano contribuito a rendere il primo film davvero epico, senza banali gag umoristiche a rovinare tutto. Poi sono arrivati i Vendicatori, il successo mondiale, e l’ironia tipica di Iron Man (peraltro fuori personaggio anche qui se parliamo di Tony Stark, più appropriata se parliamo di Robert Downey Jr.) si è espansa agli altri film Marvel. Thor subisce così un profondo snaturamento, venendo sacrificato sull’altare del profitto e della ricerca del facile prodotto commerciale.

Torniamo al film e vediamo come è la storia: Malekith, il re degli elfi oscuri, vuole far sprofondare l’universo nell’oscurità da cui è nato, e per farlo ha necessità di mettere le mani su un antico potere, l’Aethir. Questo potere gli era stato tolto e nascosto da Bor, il padre di Odino. Jane Foster vi incappa per caso e ne viene posseduta; Thor la porta su Asgard credendola in pericolo e fa bene: Malekith e la sua razza attaccano Asgard, fallendo di pochissimo nel catturare la ragazza, ma nella lotta resta uccisa Frigga, la madre di Thor. Oltre a proteggere Jane, Thor vuole farla pagare a Malekith e così si allea con l’infido fratellastro, Loki, desideroso anche esso di vendicare la madre (adottiva). Il loro piano fallisce alla grande e Malekith riesce non solo ad appropriarsi dell’Aethir, ma anche ad uccidere Loki. Resta solo Thor a fronteggiarlo: la battaglia finale avviene sulla Terra, a Greenwich (Londra), e grazie all’aiuto dei suoi alleati umani (Jane e il dottor Selvig) riesce alla fine ad avere la meglio. Vi evito la descrizione completa del finale per evitarvi un grosso spoiler. La storia del film è abbastanza semplice e lineare, con il potere dell’Aethir a svolgere il ruolo di MacGuffin. Non mancano alcuni buchi di sceneggiatura: la spiegazione su come scoprono il luogo dell’attacco di Malekith alla Terra, ad esempio, è davvero campata in aria, e pur di non perdere l’opportunità di creare una scena comica, poi, si sacrifica spesso e volentieri il realismo e la logica (tipo Thor che va in metro per tornare da Malekith a Greenwich … ma usare Mjolnir e volare no?). Non voglio però infierire troppo su questo argomento, si tratta di pochi episodi (fastidiosi) che non scalfiscono nel complesso lo sviluppo del film.

Un altro punto debole della pellicola è l’inconsistenza dei cattivi e dei loro piani: Malekith è un villain davvero piatto e scialbo, le sue motivazioni praticamente risibili (voglio riportare l’universo a come era prima, nell’oscurità, quindi distruggerò tutto … mah!), la sua forza quasi nulla rispetto a Thor. Nello scontro finale, grazie al potenziamento dell’Aethir, Malekith tiene testa a Thor, riuscendo anche a metterlo in serie difficoltà, ma poi si fa comunque fregare come un pollo, senza un reale motivo che non sia il fatto che siamo alla fine del film e che Thor deve vincere.

Un’altra cosa che non mi è piaciuta molto, e vado a concludere la recensione, è il modo in cui viene ritratta Asgard. Il primo film aveva chiarito come Thor, Odino e gli Asgardiani, a conti fatti, non fossero davvero divinità ma super alieni, e la cosa ci poteva anche stare. In Asgard si fondevano magia e tecnologia, ma l’elemento predominante del primo film, a parere mio, era l’aspetto mitico/magico. In questo secondo film si punta invece più sull’altra faccia della medaglia, l’aspetto alieno/tecnologico: gli elfi scuri (anche essi alieni, ovviamente) utilizzano astronavi, armi a raggio e bombe potentissime, mentre Asgard risponde all’attacco volante degli elfi scuri con cannoni e contraerea. Non so voi, ma su di me queste scelte hanno avuto un effetto straniante. Ammetto che visivamente erano uno spettacolo, però avrei preferito che si fosse rimasti sul piano fantasy/magico, senza contare poi che se decidi di puntare sull’aspetto tecnologico, poi devi seguirlo fino in fondo, perché altrimenti il rischio “mi puzza di stronzata” è alle porte. Un rischio che si concretizza in fretta quando prima vedi tutta questa tecnologia in azione, salvo vedere gli Asgardiani usare ancora spade e lance: ma se hai la tecnologia per creare armi a raggio, perché fare un martello magico invece di un super cazzuto fucile laser magico? 

In conclusione questo secondo film di Thor delude sotto diversi aspetti, pur restando nel complesso gradevole, ma senza mai andare oltre una stiracchiata sufficienza. La storia scorre liscia fino alla fine, senza scossoni o colpi di scena, l’azione e l’aspetto visivo sono a buoni livelli, ma i vari difetti a cui ho accennato tolgono al film la capacità di emozionare davvero; “Thor: the Dark World” è un semplice compitino fatto per avvicinarsi ulteriormente al secondo film degli Avengers, né più né meno.

lunedì 21 ottobre 2013

Un estate di gioco



Ben ritrovati a tutti. Prima che me lo chiedete: no, non sono morto, sono semplicemente pigro! L’indolenza estiva mi è rimasta addosso per tutto settembre, e solo adesso sono tornato a scrivere sul blog. Questa volta parliamo di giochi da tavolo: in questi ultimi mesi, con i miei amici, abbiamo giocato a diversi titoli, e mi pare il caso di buttare giù una recensione prima che l’arrivo di nuovi giochi spinga questi ultimi fuori dalla mia memoria.


Cominciamo dunque da Jamaica, un gioco carino, veloce, e adatto praticamente a tutti. Ogni partecipante assume il ruolo di comandante di una nave pirata: il primo a compiere un intero giro dell’isola di Giamaica, con partenza e arrivo dalla capitale Port Royal, sarà il vincitore. Una piccola plancia di cartone rappresenta la stiva di ogni nave, e i giocatori devono cercare di metterci dentro più roba possibile tra oro, cibo e polvere da sparo, ovviamente con il giusto criterio. I dobloni d’oro danno punti alla fine della partita, e si sommano a quelli che si ricevono in base all’ordine di arrivo: se vi caricate d’oro è ben possibile scavalcare in classifica chi arriva prima di voi a Port Royal, e addirittura vincere! Le razioni di cibo servono per sopravvivere nelle distese d’acqua intorno all’isola: ogni spazio di mare che si attraversa richiede solitamente di pagare una certa quantità di cibo (più raramente anche di dobloni), e se non siete in grado di pagare questo tributo sarete costretti a tornare indietro di diverse caselle. La polvere da sparo vi aiuta a vincere i combattimenti con gli altri giocatori; quando la vostra nave arriva in una casella già occupata da un’altra nave, siete costretti ad ingaggiare battaglia: il vincitore avrà il diritto di depredare le stive dello sconfitto, rimpinguando così i propri averi. La meccanica più interessante di questo gioco, comunque, è il sistema con cui le navi si muovono sul tabellone: ogni turno il primo giocatore lancia due dadi, posizionandoli in due caselle speciali che rappresentano il giorno e la notte. Tutti i giocatori dispongono di un mazzo di carte (uguale per tutti), che contiene tutte le azioni disponibili. Ogni carta è divisa in due parti, la notte e il giorno; una volta giocata, sarà il dado posizionato nel relativo spazio a dare un valore numerico alle azioni presenti sulla carta. Per fare un esempio, se gioco una carta che indica di fare provviste di cibo di giorno e spostarsi avanti di notte, e nello spazio del giorno c’è un dado che indica il numero 3 e in quello della notte il numero 6, ciò significa che, in questo turno, la mia nave raccoglierà 3 provviste di giorno e si sposterà di 6 caselle la notte. Anche se i mazzi sono uguali per tutti i giocatori, le carte vengono pescate casualmente, e ogni giocatore dovrà cercare di ottenere il massimo con il risultato dei dadi che in quel momento si trovano sul tavolo. Non tutte le azioni indicate dalle carte sono positivi, ad esempio c’è il movimento all’indietro: un bravo giocatore dovrà cercare di assegnargli il valore più basso possibile, sfruttando invece i risultati alti con gli effetti positivi, quali la raccolta di oggetti o lo spostamento in avanti. Jamaica è un gioco semplice da imparare ed altrettanto da giocare, adatto quindi anche a giocatori occasionali. Una buona strategia è importante, così come un pizzico di fortuna nel pescare le carte o lanciare i dadi; si tratta di un gioco a metà strada fra chi preferisce giochi altamente strategici, dove il caso non esiste, e chi invece adora lanciare dadi ogni secondo. Personalmente mi sento di consigliarlo, soprattutto se vi piace fare serate di gioco non troppo lunghe ed avete amici non troppo esperti.


Il secondo gioco di cui voglio parlarvi è Kemet, un gioco di strategia e battaglia ambientato nell’Antico Egitto. Il tabellone di gioco (che è double-face, per 5 e 3 giocatori da un lato, per 4 e 2 dall’altro) è diviso in aree di territorio, città e templi. Ogni giocatore inizia il gioco controllando una città ed alcune truppe, e con queste partirà alla conquista dei vari templi. Vince il gioco colui che raggiunge prima degli altri 8 punti vittoria; è possibile collezionare tali punti in vari modi, come combattendo, occupando i templi o costruendo piramidi. Alcuni punti vittoria sono permanenti, nel senso che una volta ottenuti non possono essere più persi, ad esempio combattendo; altri invece sono temporanei (come l’occupazione dei templi) e il loro possesso può essere strappato via con la forza. Questo sistema è abbastanza ingegnoso, poiché impedisce al giocatore che sta vincendo di prendere il largo troppo in fretta, permettendo contestualmente il rientro in partita dei giocatori più deboli o più sfortunati. Ogni giocatore può costruire delle piramidi sul suo territorio; nel gioco sono rappresentati da grossi dadi a 4 facce ed hanno colori diversi a seconda del significato: il rosso è il combattimento, il blu la difesa e il bianco la preghiera e la protezione. Il colore delle piramidi è associato al colore delle tessere potere: sviluppando i livelli della piramide rossa, ad esempio, si avrà la possibilità di acquistare le tessere potere rosse dedicate al combattimento. E’ proprio dalla combinazione dei poteri forniti da queste tessere che, in ultima analisi, scaturisce la parte più divertente e strategica del gioco. Alcuni poteri, se presi da soli, possono non sembrare niente di che, ma in combinazione con altri possono avere effetti devastanti. Nelle prime partite potrà capitare che un giocatore riesca a mettere insieme una combinazione di tessere potere quasi invincibile, ma dopo aver preso un po’ di dimestichezza con le regole, i giocatori saranno abbastanza furbi da impedirlo. Il gioco si sviluppa in turni, ognuno diviso in due fasi: la notte e il giorno. La fase della notte è comune a tutti i giocatori, mentre quella del giorno segue un ordine di gioco determinato dal giocatore che, fino a quel momento, ha meno punti degli altri. Durante la fase giorno ogni giocatore può pregare (acquisendo punti preghiera, praticamente la valuta del gioco, con cui si acquista ogni cosa), comprare tessere potere, costruire piramidi, muovere o reclutare le truppe. Quando il movimento porta le vostre miniature in un territorio controllato ad un avversario, ha inizio una battaglia. Gli scontri vengono risolti giocando una carta battaglia che fornisce un bonus alla forza numerica della truppa, determinando inoltre quanto danno viene inflitto. Tutti i giocatori hanno un mazzo di 6 carte battaglia uguali; solo quando tutte e 6 le carte sono state giocate, queste tornano nuovamente disponibili; il fatto che la carta da giocare venga scelta e non pescata, rende la battaglia una sfida di strategia dove il caso ha un elemento marginale. Chi inizia uno scontro lo fa con una certa sicurezza di vincere poiché, se è stato attento, sa quali carte battaglia ha già giocato il suo avversario. Kemet è davvero un bel gioco, profondo e strategico, ma con regole abbastanza semplici. Con giocatori esperti una partita dura al massimo un paio di ore, ma vi consiglio di fare delle fotocopie dello schema riassuntivo delle tessere poteri, poiché viene consultato spessissimo durante il gioco ed è molto più comodo e veloce se ogni giocatore ne ha una sua copia personale.


Gli zombie vanno molto di moda oggigiorno, una moda che non ha risparmiato neppure i giochi da tavolo, ed il terzo gioco di oggi è proprio legato a questi simpatici non morti divoratori di cervello: City of Horror. Una plancia componibile rappresenta una città assediata dagli zombie mentre ogni giocatore manovra uno o più personaggi presi a forza dagli stereotipi del genere (il palestrato, il bambino, la bella bionda, etc.). Lo scopo del gioco è quello di sopravvivere fino all’arrivo dell’elicottero, ovvero dopo 4 turni di gioco: chi ha totalizzato più punti vittoria sarà il vincitore. Ogni personaggio ha un valore in punti, quindi, di solito, chi riesce a mantenere in vita più personaggi sarà il vincitore, ma è possibile fare punti anche raccogliendo alcuni oggetti speciali come l’antidoto o le razioni di cibo. L’antidoto, in particolare, è fondamentale: per poter essere salvato dall’elicottero (ed essere quindi conteggiato nel totale dei punti vittoria), ogni personaggio deve avere almeno un antidoto; ogni giocatore deve procurarsene uno alla svelta, o le sue possibilità di vittoria scenderanno drasticamente. Come ho appena detto, il gioco dura un totale di 4 turni; ogni turno si sviluppa in maniera sempre uguale: i giocatori decidono in quali luoghi spostare i loro personaggi, quindi vengono piazzati casualmente degli zombie e solo dopo avviene l’effettivo movimento. Potrebbe benissimo capitare, quindi, che il luogo dove volete far arrivare il vostro personaggio sia inizialmente mezzo vuoto, per poi riempirsi di zombie in seguito! Terminato lo spostamento, si risolve l’effetto speciale legato ad ogni luogo; tale effetto permette in genere di pescare carte o acquisire oggetti, in ogni caso si tratta di qualcosa di utile per il vostro personaggi. A questo punto arriva il turno degli zombie: i non morti attaccano le singole locazioni e i personaggi ivi presenti, ma solo se raggiungono un certo numero minimo indicato sul tabellone. I giocatori, grazie all’effetto di carte o dei poteri speciali del loro personaggio, possono tentare di far fuori gli zombi prima che questi attacchino: se riducono il loro numero sotto questa soglia minima, l’attacco viene sventato. Se non ci riescono, allora i non morti dilagano ed un personaggio viene necessariamente ucciso! Saranno gli stessi giocatori, tramite delle votazioni, a decidere chi sarà a morire, ed è inutile dire che questa è la parte più interessante del gioco. I tradimenti, i complotti, le alleanze, sono il cuore del divertimento di questo ennesimo gioco di zombie che, altrimenti, non avrebbe in sé davvero nulla di innovativo, persino il comparto della grafica e dei materiali è decisamente carente rispetto ad altri giochi, ad esempio Zombicide. 


L’ultimo gioco di questo articolo, nonché il mio preferito in questo periodo, è Krosmaster Arena. E’ un gioco di combattimento fra miniature: due squadre di quattro personaggi si affrontano su un tabellone pieno di arredi scenici tridimensionali come alberi, casse e cespugli, e chi resta in piedi è il vincitore. La particolarità di questo gioco, ciò che davvero lo caratterizza e lo fa spiccare sugli altri, è nella qualità dei componenti, in particolar modo nella bellezza delle miniature. Anche il sistema di gioco non è male, ve ne parlerò fra un attimo, ma non smetterò mai di insistere su quanto sono belle le miniature di questo gioco! Di plastica, alte circa 6 o 7 centimetri, sono colorate, dettagliate e totalmente in stile manga deformed, un vero spettacolo per gli occhi. Se ci aggiungete nomi buffi come “Fre Gato” o “Il Re dei Pappatutto”, o poteri speciali come “piccinopicciò” o “pappatistoschiaffo”, e capirete come sono arrivato ad adorare questo gioco! 


Ma veniamo alle regole vere e proprie: ogni personaggio è rappresentato, oltre che da una miniatura, da una carta su cui sono indicate le sue caratteristiche, come i punti movimento, i punti ferita, i punti azione e i suoi incantesimi. Ogni incantesimo costa un certo numero di punti azione, quindi il turno di ogni personaggio si divide fra spostamenti ed attivazione dei poteri. Gli incantesimi sono in maggioranza offensivi, ma ci sono anche poteri curativi o di potenziamento. Il format che descrive gli incantesimi è molto semplice, e comprende il nome del potere, il costo in punti azione, la gittata, i danni inflitti ed eventuali effetti speciali. Il tabellone di gioco è diviso in quadretti, e su alcuni di essi vengono poste delle monete dette “kami”; con questi kami è possibile fare diverse cose, la più importante di tutte è acquistare dei potenziamenti. I potenziamenti sono rappresentati da poteri speciali, da oggetti e in genere da migliorie che possono essere temporanee oppure permanenti. I potenziamenti sono rappresentati fisicamente da alcune pedine colorate; vengono messe accanto al tabellone, alcune a faccia in su, la maggior parte coperte. I giocatori possono acquistare liberamente i gettoni già rivelati oppure, se non li trovano di loro gradimento, tentare la sorte e pescarli casualmente. Ad ogni turno, un giocatore muove tutti i personaggi della sua squadra, dal più veloce al più lento secondo la loro iniziativa; lo stesso farà il suo avversario al proprio turno. Si tratta di un gioco abbastanza semplice, ma non privo di profondità e di una certa strategia: ogni potere ha una sua utilità, ma soprattutto una sua gittata, ed è importante non mettersi a tiro degli incantesimi avversari troppo presto. E’ utile avere almeno un personaggio che si dedica a raccogliere i kami, dato che i potenziamenti possono dare alla proprio squadra il vantaggio speciale di cui ha bisogno per vincere. E’ possibile comprare personaggi aggiuntivi (oltre agli 8 presenti nel gioco base) e anche alberi, casse e cespugli di plastica da sostituire a quelli di cartone che trovate nella scatola. L’acquisto di personaggi aggiuntivi è una buona cosa, aumenta la varietà di gioco e il divertimento, ma pone anche alcuni problemi, poiché alcuni di essi sono davvero potenti.