venerdì 27 novembre 2015

Leggendo qua e là ... (prima parte)



Ho sempre avuto un buon rapporto con i libri e la lettura. Da piccolo amavo la mitologia greca e le imprese degli eroi omerici come Ulisse e Achille; da adolescente mi diedi al fantasy con la saga di Shannara e le cronache di Dragonlance. Crescendo ancora, però, smisi di leggere in maniera assidua (a parte i fumetti!) e le mie letture divennero occasionali. Mi piaceva ancora aggirarmi fra i ripiani di una libreria e se un libro mi colpiva lo compravo ma non lo leggevo subito, lo mettevo da parte per tempi futuri. Pensavo che per leggere un libro occorresse prendersi il giusto tempo: la mente sgombra da pensieri, una comoda poltrona e soprattutto il silenzio intorno. Inutile dire quanto al giorno d’oggi una condizione del genere possa realizzarsi: potete capire, perciò, perché il numero dei libri non letti sullo scaffale aumentava vertiginosamente, senza alcuna speranza da parte mia di ridurlo in tempi brevi. Quando ho cominciato a lavorare, inizialmente ero sdegnato dall’abbassarmi a prendere la metro, per cui ho tentato di usare il motorino ma il freddo della mattina e l’onnipresente raffreddore mi ha obbligato a desistere. Mi sono rassegnato a prendere la metro, ma come passare il tempo durante il tragitto? Musica? Naaa. Giochetti al cellulare così da ridurmi come quei lobotomizzati che vedo ogni giorno accanto a me? Mai e poi mai. Restavano i libri, il problema era vincere la mia sacra convinzione che si potesse leggere solo in condizioni idonee, che chiaramente la metro non presentava! Mi sono imposto di provare, il primo libro iniziato e finito interamente in metro è stato “Il figlio del cimitero” di Neil Gaiman. Come sia andato l’esperimento potete immaginarlo se state leggendo questo articolo; vi basti sapere che da quel giorno non mi sono più fermato e ho macinato pagine su pagine, riuscendo man mano a leggere quasi tutti i libri che nel corso degli anni erano rimasti fra gli scaffali a prendere la polvere. In questa nuova rubrica del blog vorrei parlarvi dei libri che leggo ogni giorno mentre vado e torno dal lavoro: i più belli, chiaramente, ma non solo, anche quei libri che non vinceranno mai un premio ma che riescono comunque ad intrattenerti mentre viaggi su un vagone puzzolente pieno di gente puzzolente! E perché no, anche quelli brutti, le delusioni, così da impedire ad altri lettori di prendere la proverbiale “sola”, come si dice a Roma. E’ anche possibile che in seguito uno di questi libri si meriti una recensione tutta sua, assurgendo allo status di capolavoro, chi lo sa? Ma andiamo ad iniziare …


Elantris” di Brandon Sanderson è uno dei libri più interessanti che ho letto negli ultimi tempi. Si tratta di un romanzo fantasy e la cosa più incredibile di tutte (udite udite) è che non fa parte di nessuna saga o trilogia, è un libro unico, stop! Già per questo andrebbe premiato; se in più ci aggiungiamo che è davvero un bel libro, va assolutamente letto. Brandon Sanderson è un giovane scrittore fantasy che proprio con “Elantris” si è fatto notare al pubblico degli appassionati. Tuttavia ha superato da tempo lo status di “promessa interessante”, continuando a scrivere romanzi come la saga di Mistborn o le Cronache della Folgoluce. Il romanzo prende il nome dall’omonima città, un luogo pieno di magia e potere, i cui abitanti sono riveriti come divinità e in grado di compiere autentici prodigi. Non si nasce Elantriani ma ci si diventa tramite lo Shaod, una trasformazione improvvisa che conferisce al fortunato i necessari poteri, oltre ad un aspetto fisico leggermente modificato (gli Elantriani, ad esempio, hanno la pelle color oro). Un cataclisma inaspettato si abbatte sulla città, trasformando i suoi abitanti in creature deboli, sofferenti, ma incapaci di morire. Più passa il tempo, più la fame e i danni fisici distruggono la sanità degli Elantriani, rendendoli simili a zombie. Ora lo Shaod (la trasformazione) non è più vista come una benedizione, ma una maledizione, il Reod, e chi ne viene colpito viene confinato nella città. La storia comincia quando Raoden, il principe del regno di Arelon, lo stato in cui si trova Elantris, subisce il Reod e si trasforma. La sua tenacia e la sua intelligenza gli permetteranno di non soccombere al dolore ed alla pazzia, investigando al tempo stesso le possibili cause di questa maledizione. Tutto questo mentre il suo regno è minacciato da forze ostili. Non voglio dirvi altro sulla trama, merita di essere scoperta unicamente tramite la lettura. Il punto forte di “Elantris” è una narrazione asciutta, personaggi credibili e delineati, e la coerenza dell’autore alle regole magiche che fanno da sostrato al mondo fantasy da lui stesso creato.


Un libro da evitare, invece, è “Alla fine John muore”, di David Wong. Si tratta di un romanzo pubblicato a puntate sul web, quindi raccolto in volume e dal quale è stato tratto pure un film dallo stesso titolo. Il mio interesse per il libro è nato proprio per via del film (regia di Don Coscarelli) che mi era stato presentato come una via di mezzo fra una commedia d’azione demenziale e i miti di Cthulhu! Capirete bene che, viste le premesse (no dico, i miti di Cthulhu!), ero parecchio interessato, ma la delusione attendeva dietro l’angolo. Del film posso dire che è senza lode e senza macchia ma almeno ha il pregio, rispetto al libro, di essere breve. Il libro non ha la stessa attenuante ed è grave se si presuppone che l’originale debba essere migliore. Così non è: la storia si snoda fra mille passaggi senza senso, senza prendere una direzione, riflettendo negativamente la sua natura originaria di romanzo pubblicato a puntate. Qualche punto a suo favore il libro ce l’ha: le descrizioni delle reazioni dei protagonisti all’orrore bizzarro che infesta il romanzo sono di pregio, fa toccare con mano come si potrebbe sentire l’uomo della strada a contatto con entità simili a quelle dei miti di Cthulhu. Questi pregi vengono però eclissati da una storia sconclusionata, ma soprattutto da scene e situazioni che, più che bizzarre, definirei demenziali. Quando si sconfina dallo strano allo stupido, non c’è niente che può salvare una storia, niente.


Di assoluta qualità, invece, è “Le porte di Anubis” di Tim Powers, uno che ci sa davvero fare. E’ un libro vecchiotto, pubblicato nel 1983 e decisamente difficile da reperire. Il protagonista della storia è un professore di letteratura inglese, Brendan Doyle, che viene ingaggiato da un bizzarro miliardario per accompagnarlo indietro nel tempo, insieme ad altri eccentrici ricconi, ad ascoltare una conferenza dal vivo di Samuel T. Coleridge, nel 1810. Al momento di tornare nel nostro tempo qualcosa va storto e Brendan resta bloccato nel passato. Comincia una storia di intrighi, misteri egiziani, magia e paradossi temporali che lascia davvero senza fiato per la ricchezza di dettagli e per l’inventiva della trama. Ogni altra parola sulla trama è di troppo, il rischio di spoiler elevatissimo, quindi meglio finirla qui. Se non trovate il romanzo in versione cartacea, potete sempre reperirlo in formato epub, come ha fatto il sottoscritto, non ve ne pentirete.


Passiamo ora ad un po’ di fantascienza: il classico “Straniero in terra straniera” di Robert Heinlen, il recentissimo “L’uomo di Marte” di Andy Weir, del quale potreste aver visto l’omonimo film di Ridley Scott, nei cinema fino a pochi mesi fa, e “Leviathan. Il Risveglio” di S. A. Corey. Cominciamo dal primo, un romanzo scritto nel lontano 1961 che narra la storia di Valentine Micheal Smith, un essere umano allevato dai marziani su Marte. Il giovane ritorna sulla terra e si ritrova erede di una immensa fortuna. La storia è centrata sull’adattamento alla cultura terrestre da parte di un essere umano che si considera un marziano, il suo punto di vista è scevro da preconcetti e, per il suo tramite, Robert Heinlen critica diversi aspetti della società americana dell’epoca. Il libro è basato essenzialmente su lunghi dialoghi in cui si indagano temi quali il denaro, la morte e la sessualità, chi è alla ricerca di temi maggiormente fantascientifici può evitarlo senza problemi. Personalmente, dopo un’iniziale interesse, ho fatto fatica a finirlo, la noia è subentrata ben presto. E’ un libro interessante ma non quello che stavo cercando e all’ennesimo pistolotto sulla libertà sessuale ero tentato di lanciare il libro giù dal treno. “L’uomo di Marte” è stato ironicamente descritto come “MacGyver su Marte” e in effetti tali parole calzano a pennello. E’ la storia di Mark Watney, un astronauta che, creduto morto dai suoi compagni nel corso di una missione, viene abbandonato sul pianeta rosso. La sua unica speranza di salvezza è la successiva missione su Marte, che non avverrà prima di quattro anni: come fare a sopravvivere nel frattempo? Il romanzo è l’ingegnosa risposta di Mark a tale quesito. Per sopravvivere il protagonista deve affrontare problemi di ingegneria meccanica e di botanica, affrontare epici viaggi fra le dune di Marte con il suo rover, cercare di entrare in contatto con la NASA e altro ancora. “L’uomo di Marte” non è un romanzo di sentimenti, non è Cast Away, non ci sono fidanzate da cui tornare o bambini che crescono senza il papà. E’ invece una storia rigorosa, quasi scientifica, di una persona rimasta sola su Marte, che nonostante la situazione disperata non si perde d’animo, affrontando con insolita ironia la sua condizione. L’ironia ha una duplice funzione: permette a Mark di non scoraggiarsi ma, soprattutto, rassicura il lettore, stemperando la condizione drammatica del protagonista. Chi legge il romanzo capisce sin da subito che Mark in qualche maniera ce la farà, quello che gli interessa scoprire è come. In effetti questo è il maggior pregio del romanzo: quando inizi a leggerlo non riesci più a fermarti, devi per forza arrivare all’ultimo pagina. A quel punto, però, ti rendi conto che la storia non ti ha lasciato granché perché, appunto, è solo una storia, dietro non c’è nulla. Resta comunque una lettura gradevole. Ultimo libro del terzetto, nonché di questo articolo, è “Leviathan. Il Risveglio” di S.A. Corey. Il suo autore è uno pseudonimo che nasconde dietro di se gli scrittori Daniel Abraham e Ty Franck (assistente del ben più noto George R.R. Martin). E’ il primo libro di una serie di romanzi, ambientato in un futuro in cui il genere umano ha colonizzato buona parte del sistema solare. Il ritrovamento di una molecola di origine aliena da il via ad una guerra fra Marte, la Terra e le colonie degli asteroidi e dei pianeti esterni. La storia viene narrata da due punti di vista, il capitano di un’astronave e un detective di una stazione spaziale, che gli eventi faranno incontrare e alleare contro la minaccia dell’infezione aliena. Il difetto di questo libro è che sa tutto di già visto: l’ambientazione è studiata a tavolino, copiata da videogiochi (Dead Space) e giochi di ruolo (Eclipse Phase), mentre i personaggi sono stereotipati al massimo. Come esempio basta pensare alla figura del detective che essenzialmente è una collezione di cliché: alcolizzato, depresso, prende a cuore il caso, violento … una figura già vista mille e mille volte. Peccato perché altrimenti poteva uscirne fuori qualcosa di buono, anche se per un giudizio più completo dovrei leggere i sequel, al momento inediti in Italia.

Per adesso è tutto gente, ci si vede.