giovedì 22 novembre 2018

Lezioni di giochi di ruolo (parte IV): morte del personaggio e punti ferita



Salve a tutti e ben ritrovati. Trainato dal successo commerciale e mediatico della 5° edizione di Dungeons & Dragons, il gioco di ruolo sta vivendo un momento d’oro. Sempre più nuovi giocatori scoprono questo hobby mentre i vecchi tornano a giocare, titoli e supplementi continuano ad uscire senza sosta mentre su Twitch e YouTube si moltiplicano i canali dedicati all’”actual play”. Al di là del giudizio che si può dare di ciò, in particolare di questa deriva “voyeuristica”, è innegabile che il gioco di ruolo stia tornando ai fasti di un tempo. Sui gruppi Facebook si iscrivono nuove persone desiderose di provare, di imparare a giocare, alla ricerca di altri come loro. Proprio questo afflusso di nuovi giocatori fa si che i loro dubbi e le loro incertezze riportino al centro dell’attenzione tematiche ben conosciute ai giocatori di ruolo più navigati: come bilanciare gli incontri, cosa sono realmente i punti ferita etc. In questo articolo, elaborato nello stile di un Q&A, cioè domanda e risposta, voglio provare a chiarire eventuali dubbi e meccaniche implicite del gioco di ruolo, nella speranza che risultino utili ai nuovi giocatori (ma un ripassino fa sempre comodo anche a chi ha più esperienza). Le risposte avranno un tono generalista, adatte cioè a qualunque sistema, ma con un’attenzione particolare a D&D 5° edizione, che è e resta il titolo più giocato. Ci saranno in futuro altri articoli simili; in questo, nello specifico, si parlerà soprattutto di morte del personaggio e cosa rappresentano davvero i punti ferita.

La morte di un personaggio giocante è un evento frequente? Dovrebbe esserlo?
La risposta sintetica è no, la morte di un personaggio giocante non dovrebbe avvenire spesso. Fra i due estremi di un gioco in cui nessuno è mai in pericolo e un personaggio morto ad ogni sessione, l’asticella ideale dovrebbe stare su “raramente”. Un giocatore spende tempo ed energie nella creazione di un personaggio, non solo come insieme di statistiche ma soprattutto nel delineare la sua personalità e la sua storia. Un buon master spesso si appoggia ai background creati dai giocatori per sfornare avventure su misura. Perdere un personaggio giocante, dunque, è un evento importante, che merita una giusta narrazione. La morte capita, perché le avventure sono pericolose. Se capitasse troppo spesso, però, sarebbe un problema, tanto per il giocatore che per il master. Questo almeno nel presupposto che stiamo parlando di un gioco di ruolo dove la vita ha un valore.


Aspetta, quindi mi stai dicendo che esistono giochi di ruolo dove la vita (di un personaggio) non vale nulla?
Strano a dirsi ma si. In un gioco di ruolo horror (ad es. il richiamo di Cthulhu) è molto probabile che un personaggio faccia una brutta fine, è tipico del genere in quanto tale. Sapendo di poter morire con una certa facilità, nessun giocatore se la prenderà a male se il proprio investigatore venisse divorato da un demone, ma al tempo spesso è improbabile che un giocatore perda molto tempo nel dettagliare personalità e background al suo personaggio. Bastano poche informazione e si è pronti a giocare; più il personaggio riuscirà a sopravvivere, più verrà elaborato (in gioco). Esistono altri giochi di ruolo dove la vita (delle persone e quindi dei personaggi) ha poco valore: in Cyberpunk, ad esempio. In questa ambientazione futuristica, la violenza è così diffusa che la vita o la morte hanno poco valore, puoi essere aggredito per una inezia e tutti girano armati fino ai denti. L’uso delle armi da fuoco e la scarsa considerazione per la vita genera un alto tasso di mortalità, per cui i giocatori sono ben consapevoli di poter morire ad ogni sessione. Non è un caso che la generazione del background avviene tramite tabelle casuali: servono a creare rapidamente un personaggio … e il suo eventuale rimpiazzo, in caso di prematura dipartita. Infine, esistono giochi di ruolo dove non è tanto l’ambientazione a rendere probabile la morte di un personaggio, quanto le regole di combattimento. Ne sono un esempio giochi come Stormbringer della Chaosium o il più recente The Witcher. Le regole di combattimento di questi giochi sono così letali che ogni battaglia è potenzialmente fatale, senza considerare la possibilità di ferite debilitanti permanenti che, di fatto, azzoppano il potenziale del personaggio. Vero che si tratta di ambientazioni pericolose, però la differenza qui è tutta nelle regole (anche Warhammer ha un’ambientazione pericolosa ma le sue regole garantiscono una maggior sopravvivenza).


Torniamo allora ai giochi dove la vita ha maggior valore. La morte di un personaggio giocante dovrebbe avvenire raramente ma come controllare questa eventualità? Si tirano dei dadi, dopotutto …
Assolutamente, il fattore casuale è sempre presente e a volte un personaggio può trovarsi condannato da mera sfortuna. Il gioco di ruolo si basa su un paradosso: i personaggi cercano l’avventura ma l’avventura è pericolosa, quindi possono morire ma, ovviamente, nessun giocatore vuole vederli morire. Come se ne esce? Bisogna capire che il gioco di ruolo non simula la realtà di tutti i giorni ma una realtà eroica. I personaggi non sono persone comuni, sono come gli eroi di film o fumetti, molto in gamba, in grado di cavarsela in tante occasioni. Nonostante ciò anche loro possono morire. Quello che importa davvero è che non si tratti di una morte banale: morire perché il master mette in fila dei tiri strepitosi in uno scontro con un semplice goblin, non è un granché. Morire bloccando l’esercito nemico su un ponte, permettendo ai compagni di fuggire e salvare la principessa garantisce la gloria eterna. Premettendo che il  master non dovrebbe mai guidare la storia, decidendo chi vive e chi muore, è perfettamente lecito “barare” a favore dei giocatori ogni tanto. Se un “onesto” tiro di dado tramuterebbe la scena in un massacro, nessuno può rimproverare al master di aver ignorato il risultato e salvato il gruppo. Queste cose devono avvenire in segreto, i giocatori non devono avere la percezione di quello che è successo, per due ovvi motivi. Primo: non è divertente, ai giocatori non piace sentire di non avere il controllo sul proprio personaggio; secondo: se salvi i giocatori una volta (e lo capiscono), potrebbero farsi aspettative circa salvataggi futuri, e pure questo è da evitare. Barare a favore dei giocatori non dovrebbe avvenire troppo spesso: i personaggi in genere sono abbastanza forti e competenti per cavarsela da soli. Se in ogni scontro si deve barare per farli vincere, è chiaro che il problema è nel bilanciamento del combattimento. Questo ragionamento ha alla sua base la premessa che i giocatori si comportino in maniera saggia, evitando scontri già persi in partenza o mosse stupide o autolesioniste. Se ciò avviene (e succede più frequentemente di quanto si pensi), il master non ha nessun obbligo di salvare i personaggi: si lanciano i dadi e si resta a vedere cosa succede. Capire quando agire e quando non farlo è un’arte che dipende da molti fattori, non ultimo i desideri e i gusti del proprio gruppo. L’esperienza, il gioco costante e, perché no, gli errori commessi, vi aiuteranno a definire le vostre linee guida personali.


Che succede quando il gioco prevede la resurrezione del personaggio? Questi discorsi sono ancora validi? Quanto dovrebbe essere difficile tornare in vita?
Molti giochi di ruolo prevedono la possibilità di tornare in vita con lo stesso personaggio: nei giochi fantasy è la magia a riportare in vita i morti, in quelli di fantascienza la tecnologia avanzata, come la clonazione, la rigenerazione estrema o la trasformazione in cyborg. Non conta il sistema, conta il fatto che il personaggio può tornare in vita. E’ innegabile che, da un certo punto di vista, la resurrezione svilisce la morte e il concetto di pericolo delle avventure. Immaginate Boromir tornare in vita dopo il suo eroico sacrificio nel difendere Merry e Pipino, la credibilità e il pathos della scena risulterebbe annientato. Pensate ai super eroi americani: muoiono e risorgono da anni come se niente fosse, al punto che l’annuncio della loro morte non fa assolutamente né caldo né freddo ai fan, sanno benissimo che torneranno dopo pochissimo. Tutto questo per dire che, personalmente, reputo l’espediente della resurrezione profondamente sbagliato. Ma per amor di conversazione, ammettiamo che sia possibile. In genere, l’accesso a questo potere avviene ad alti livelli di gioco, chi muore prima si trova in una sorta di limbo: il gruppo non ha le risorse per resuscitare il proprio compagno morto ma il giocatore sa che esiste tale possibilità, quindi si rivolge speranzoso al master. La resurrezione potrebbe arrivare come ricompensa da un personaggio non giocante di grande potere oppure il master potrebbe deviare temporaneamente la storia della campagna in corso su una “side quest” dedicata a far tornare in vita il morto. Si pongono però due problemi. Il primo è una questione di equità: è possibile che si trovi un escamotage per far tornare in vita il personaggio ma che succederà quando sarà un altro a morire e non ci sarà nulla a cui appellarsi? E’ giusto che un personaggio muoia diverse volte e torni in vita perché l’avventura prevede questa ricompensa, mentre un altro personaggio che ha la sfortuna di morire in un’avventura dove non c’è questo bonus resti morti per sempre? Quante volte è giusto resuscitare un personaggio prima che la cosa diventi ridicola? Secondo: è giusto che un master debba mettere da parte la sua campagna (che è anche la storia di tutto il gruppo) per riportare in vita un giocatore? Di nuovo si pone una questione di giustizia: quante volte è lecito lasciar perdere tutto per salvare un personaggio? Chi muore in un certo momento della storia, magari un po’ fiacco, è più fortunato di chi muore ad un passo dallo scontro finale, quando non c’è più tempo di interrompere la storia. C’è chi direbbe “pazienza, la vita non è giusta”, è una filosofia valida. Il gioco di ruolo, tuttavia, è un gioco collettivo, i giocatori sono sullo stesso piano e potrebbero nascere delle grane. Nella mia carriera da master ho visto giocatori litigare per inezie, posso solo immaginare quando è in ballo la vita del personaggio quello che può succedere. Per tutti i motivi di cui sopra, e cioè la credibilità del gioco e questioni di equità, penso sia meglio lasciar stare la resurrezione, eliminandola dai giochi che ne fanno uso.

Ok, la resurrezione incrina la credibilità e il pathos della storia, ma non c’è davvero niente che si può ideare, a livello di regolamento, per aumentare le chance di sopravvivenza dei personaggi?
Ci sono molte meccaniche, nei vari di giochi di ruolo, che servono ad evitare la morte dei personaggi. Punti fortuna che permettono di rilanciare i dadi (del giocatore o del master stesso), bonus ai tiri contro la morte, regole che considerano i personaggi come morenti nei round successivi al colpo fatale, allo scopo di permettere al gruppo di tentare una cura sullo sfortunato compagno, etc. In genere, la caratteristica di queste regole è che sono consumabili o limitate: i punti finiscono, il bonus non garantisce successi automatici, il tempo in cui si è considerati morenti dura poco. Personalmente, il sistema che ho sempre preferito è quello di Warhammer, ovvero i punti fato. Ogni personaggio ha un certo numero di punti fato: quando subisce una ferita mortale ne spende uno e si salva la vita. Il master dichiara cosa succede in realtà (ad esempio il personaggio crolla a terra, creduto morto ma in realtà ancora vivo) e la storia prosegue. Il master non ha il potere di infierire su un personaggio dopo che ha speso un punto fato, altrimenti questi terminerebbero subito, ma sicuramente può metterlo in brutte situazioni, come essere preso prigioniero. I punti fato sono pochi e dannatamente utili, quando terminano non c’è più niente fra il personaggio e la morte. In genere si usano nelle prime avventure, quando i personaggi non sono ancora molto forti o competenti: un uso oculato e un po’ di fortuna permette al personaggio di crescere di potenza, potendo poi contare sulle proprie forze per sopravvivere. La seconda edizione di Warhammer ha introdotto la possibilità di guadagnare altri punti fato, ma per farlo è necessario compiere atti davvero eroici, pertanto il loro numero tende a rimanere basso. Ecco, se state giocando ad un gioco di ruolo che utilizza la resurrezione, potete eliminarla ed introdurre al suo posto i punti fato. Dipende dal vostro stile di gioco ma se, come me, odiate che i cancelli del regno della morte abbiano i cardini girevoli come le porte di un saloon, è un buon compromesso.


Se si parla di morte del personaggio, inevitabile pensare ai punti ferita. Ma cosa rappresentano davvero?
Ogni gioco di ruolo ha una statistica che misura la vitalità e la resistenza di un personaggio. Che si chiamino punti ferita, stamina, resistenza, punti vita, quando questo valore è prossimo allo zero spesso ci sono conseguenze negative per il personaggio, come penalità ai tiri, una riduzione del numero di azioni che può compiere e simili. Quando arriva o scende sotto lo zero, il personaggio è morto. Istintivamente, è facile figurarsi questa riserva di energia come la barra di vita di un videogioco: man mano che un personaggio subisce colpi, questa si abbassa, fino alle estreme conseguenze. Questa descrizione è abbastanza accurata per quei giochi dove i personaggi sostanzialmente evitano di essere colpiti, dove ogni colpo che va a segno lascia conseguenze pesanti e in cui il valore della riserva vitale non è molto elevata, a significare che pochi colpi ben piazzati sono sufficienti ad uccidere una persona. Tutto ciò rappresenta (più o meno fedelmente) la realtà delle cose: bastano uno o due colpi di spada ad uccidere un uomo e i combattenti evitano perlopiù di essere colpiti, la loro difesa si basa sulla velocità. Di più, questo modo di vedere le cose è conseguente anche alla “realtà” della fiction: gli eroi di film, telefilm, fumetti etc. evitano di essere colpiti, perlomeno da attacchi mortali (calci, pugni e manga fanno eccezione). Aragorn non viene praticamente mai colpito, mentre Boromir muore con 4 frecce nel petto ma già la prima era letale. Purtroppo in Dungeons & Dragons le cose non funzionano in questa maniera e questo lascia spesso confusi i nuovi giocatori.

Perché? Cosa rappresentano i punti ferita in D&D?
Dungeons & Dragons è un gioco che misura in livelli il potere dei personaggi. Man mano che salgono di livello i personaggi aumentano i loro punti ferita: all’inizio della carriera ne hanno una decina, alla fine un centinaio, anche duecento e più per i guerrieri. Il danno di una spada è rappresentato dal dado a otto facce (d8). Al primo livello, due colpi di spada sono fatali e le cose apparentemente vanno come nel mondo reale (anche quello della fiction). Al ventesimo livello, un guerriero con 200 punti ferita può incassare decine di colpi di spada (o attacchi molto più forti, come il soffio del drago) senza troppi problemi. Tutto ciò non è certamente realistico. Alcuni difendono lo status quo asserendo che D&D in se non è realistico: non lo sono i personaggi, non lo sono i loro poteri, non lo sono i mostri, c’è la magia … insomma perché aspettarsi che le cose siano realistiche? Questo modo di ragionare è sbagliato, la verosimiglianza deve esistere anche nel mondo di gioco. D&D non nega le leggi della fisica: se scagli un sasso quello cade per terra, la forza di gravità esiste sulla Terra come su Toril (il mondo dell’ambientazione Forgotten Realms). La magia (pure essa ha delle regole, non dimentichiamolo) permette di violare alcune regole naturali ma rientra tutto nei parametri del gioco: senza magia o altro, le cose vanno (o meglio, dovrebbero andare) come nella realtà. Per risolvere il problema, pertanto, è necessario andare più a fondo e capire esattamente cosa sono i punti ferita in D&D e cosa rappresenta un attacco andato a segno.

Continua …
Certo. I punti ferita di D&D non rappresentano la vitalità dura e pura: sono invece un misto di resistenza, concentrazione, capacità di evitare danni seri e volontà di continuare a combattere. Finché un personaggio ha anche solo 1 punto ferita, il suo personaggio è in grado di lottare senza problemi. I punti ferita, pertanto, sono una sorta di cuscinetto fra la salute e la morte. In D&D un personaggio è considerato ferito gravemente quando ha finito i punti ferita e cioè giace morente al suolo. Ogni turno deve fare un tiro salvezza contro la morte, al terzo fallimento è spacciato. Anche se non ci sono penalità alle azioni, si potrebbe considerare ferito o molto scosso un personaggio che sia rimasto con pochi punti ferita, una decina diciamo, perché è molto probabile che un ulteriore colpo lo porti a zero, però in termini di regole il personaggio è ancora abile e in grado di difendersi. La capacità del personaggio di evitare danni seri cresce con il livello: all’inizio bastano un paio di colpi per mandarlo a terra morente, ai massimi livelli serve molto di più. Considerare i punti ferita come volontà di combattere e capacità di evitare danni mortali è però solo una faccia della medaglia. Se un attacco rappresenta un colpo andato a segno, come spiegare il fatto che personaggi di alto livello possono sopportare decine di colpi? Il punto è che, come i punti ferita non sono la vitalità in senso stretto, neppure un attacco andato a segno (che infligge danni, insomma), rappresenta un vero e proprio colpo. Si parla sempre di colpi di striscio, di urti sullo scudo o sull’armatura, di un venire meno della capacità di continuare a lottare ma non di colpi veri e propri. Solo il colpo finale, quello che porta a zero punti ferita, può essere descritto con l’essere infilzato da una lama. Tutti gli attacchi precedenti hanno solo indebolito il personaggio e, da un punto di vista realistico-descrittivo, non rappresentano vere ferite o impatti significativi. Pensiamo, per esempio, al soffio di un drago. Parliamo di fuoco rovente ad altissima temperatura, nessuno può sopravvivere ad un inferno di fuoco. Il personaggio che subisce tale attacco non viene realmente colpito dalla fiamma in maniera diretta, neppure se fallisce il tiro salvezza: significa semplicemente che la fiamma gli è passata molto vicina, procurandogli qualche ustione, togliendogli il respiro, affaticandolo ma niente di più serio. Solo il soffio di fuoco che porta il personaggio a zero punti ferita potrebbe essere descritto con il personaggio che viene arso vivo. Per riassumere, quindi, i punti ferita non rappresentano la vitalità bensì la capacità di continuare a lottare senza impedimenti e i colpi andati a segno (tranne l’ultimo, quello letale) non sono altro che taglietti, strappi del tessuto, urti sull’armatura, stanchezza, indebolimento ma niente di più grave. Solo in quest’ottica è possibile dare un po’ di verosimiglianza al sistema di ferite di Dungeons & Dragons.

venerdì 10 agosto 2018

Non solo Tolkien: consigli di lettura fantasy


Immaginate di essere in una libreria, come Feltrinelli o Arion. Siete alla ricerca di un nuovo libro fantasy per questa estate, qualcosa da leggere sotto l’ombrellone o in montagna. Vi dirigete allo scaffale dedicato al fantasy e vi mettete a cercare ma con disappunto scoprite che tre quarti dei ripiani sono occupati da libri di Tolkien o del Trono di Spade. E il resto? Qualche libro della regina italiana del fantasy Licia Troisi (buoni solo per accendere il fuoco), qualche titolo sconosciuto con la fascetta gialla dove si dice quanto ha venduto in un certo paese oppure che da questo libro è tratto un (pessimo) film di prossima uscita e … basta. Questa è la desolante situazione del fantasy nelle librerie italiane, pochi titoli famosi proposti in cento formati diversi (basti vedere le infinite ristampe del Trono di Spade) e poco altro. Nessuno vuole mettere in discussione mostri sacri come Tolkien o George R.R. Martin ma se uno li avesse già letti e volesse provare altro, cosa deve fare? Ci sono diverse possibilità ma quella che vi suggerisco è di leggere questo articolo (lo so, sono di parte) in cui vi consiglierò titoli fantasy meno noti al pubblico generalista ma comunque di alto livello. Questo articolo, nelle mie intenzioni, sarà il primo di molti, una rubrica a cadenza variabile dove recensire e consigliare libri fantasy diversi dai soliti titoli.


Una piccola premessa: non esistono (quasi) più libri fantasy singoli, ormai si parla sempre di saghe e questo vuol dire almeno una trilogia (se va bene). E’ sconfortante e profondamente commerciale ma questi sono i fatti. Ho cercato in lungo e in largo libri fantasy singoli ma, salvo l’eccezione di Elantris (già recensito da me qui), non ho trovato nulla quindi, miei cari lettori, sappiate sin da subito che, se volete il fantasy, dovete mettere nel conto di leggere non meno di due o tre libri per avere una storia unica.


Andiamo dunque a cominciare e lo facciamo con la saga “Terra Ignota” di Vanni Santoni. La serie si compone di due libri: “Risveglio” (2013) e “Le Figlie del Rito” (2014), più un prequel stand-alone “L’Impero del Sogno” (2017). La storia è ambientata nelle Terre Occidentali, governate da una Imperatrice che però non si vede mai nella storia. L’Imperatrice è servita da alcuni cavalieri, una sorta di tavola rotonda che però, per via di alcune vicende, viene corrotta dal male. Spinti dal Gran Maestro del Cerchio d’Acciaio, noto solo come H.H., questi malefici cavalieri iniziano una campagna di conquista su tutte le terre, portando morte e distruzione ai confini dell’Impero. Sono alla ricerca di alcuni artefatti mistici con cui celebrare un particolare rituale. Questo rituale era già stato celebrato dal precedente Gran Maestro ma si pensava non fosse riuscito e i pochi cavalieri rimasti fedeli al bene alla giustizia avevano provveduto a nascondere gli artefatti. Il rituale, che doveva servire a far rinascere l’Imperatrice dalle sue spoglie, ha invece avuto successo, ma in maniera parziale: il potere unico dell’Imperatrice è ora diviso fra quattro bambine, nate lo stesso giorno del rituale. Inutile dire che tali ragazze hanno capacità incredibili, come forza e agilità potenziate, enormi capacità magiche e curative etc. I romanzi si focalizzano in particolare su una di queste ragazze, che alla fine della storia avrà il fato del mondo nelle sue mani, Ailis. Una storia di formazione, quindi, ma non solo, innestata su uno scenario fantasy che si distacca dai cliché nordici. Terra Ignota pesca a piene mani dall’immaginario fantasy italiano e medievale, senza trascurare suggestioni dal ciclo arturiano. Pur non volendo dire altro sulla storia vera e propria per lasciare al lettore il gusto di scoprirla, posso assicurarvi che non mancano epiche battaglie e colpi di scena. L’intreccio narrativo si mantiene vivace in entrambi i libri; il finale, invece, risulta un po’ affrettato, forse troppo aperto; sarebbe bello se Santoni decidesse di riprenderne il filo. A dir la verità, l’autore è tornato sulla saga ma non per andare avanti, bensì indietro, con un prequel che racconta le origini dell’Imperatrice. “L’Impero del Sogno” è un libro molto interessante ma il suo collegamento con la saga principale è labile, senza considerare che si tratta di un urban fantasy (ambientato nell’Italia del 1997), quindi decisamente distante dalle atmosfere di Terra Ignota. Mi sento di consigliarvelo perché è un ottimo libro ma se state cercando un fantasy tradizionale o connessioni con la storia degli altri due potete anche lasciar perdere. Se decidete di leggerlo, fatelo dopo Terra Ignota, solo così vi saranno chiari i pochi collegamenti. 


Passiamo adesso ad un’altra saga, la trilogia di Mistborn di Brandon Sanderson. E’ composta dai romanzi “L’Ultimo Impero” (2006), “Il Pozzo dell’Ascensione” (2007) e “Il Campione delle Ere” (2008). Il primo romanzo è quasi autoconclusivo, poiché risolve completamente la storia presentata. Se decidete di proseguire, dovrete farlo fino alla fine, perché sebbene anche il secondo romanzo riesca a chiudere la trama, lascia però in sospeso diverse questioni che un lettore con un minimo di curiosità non può che cominciare subito a leggere il terzo. Per vostra fortuna non c’è solo la curiosità a portarvi avanti perché la saga di Mistborn è davvero spettacolare. E’ ambientata nell’ultimo impero, un regno governato da un monarca ritenuto immortale da oltre 1000 anni, quando il Lord Reggente (così si chiama) sconfisse un antico male e salvò il mondo, ottenendo poteri straordinari. Purtroppo il Lord Reggente è anche un sanguinario tiranno e governa con pugno di ferro: da una parte ci sono i nobili, dall’altra gli skaa, gli schiavi, obbligati a lavorare nelle piantagioni o nelle miniere, sfruttati come bestie ed uccisi se solo osano guardare storto i loro signori. Anche i nobili però devono essere messi in riga, per fare questo ci sono gli Stipulatori, direttamente alle dipendenze del Lord Reggente, il loro scopo è sovrintendere ad ogni contratto dei nobili, senza il loro avallo nessun atto ha validità legale. I più temibili servitori del Lord Reggente sono però gli Inquisitori del Culto d’Acciaio, l’unica religione ammessa nell’impero che ovviamente adora lo stesso sovrano. Gli Inquisitori sono degli allomanti eccezionali, cioè una sorta di maghi in grado di ottenere potere dai metalli. L’allomanzia consiste nell’ingerire piccole sostanze metalliche, quindi “bruciarle” all’interno dei corpi per ricavarne poteri incredibili come spingere o tirare metalli, potenziare la forza fisica e la rigenerazione, percepire fonti di metallo, sopprimere o intensificare emozioni e addirittura prevedere le mosse del nemico guardando nel suo futuro. Gli Inquisitori sono molto potenti ma non sono nulla in confronto al Lord Reggente, che è certamente l’allomante più potente del mondo, la sua presenza è in grado di generare paura e rispetto divino, schiacciando a terra persino il più coraggioso, togliendo subito ad ogni esercito la capacità di combattere. I poteri allomantici sono rari e posseduti solo dai nobili; per evitare che si diffondano fra gli skaa, le crudeli leggi dell’impero impongono ai nobili di uccidere le concubine skaa con cui intrattengono rapporti sessuali. Ogni tanto qualche skaa sfugge a questa sorte e i figli manifestano poteri allomantici. Protagonista della saga è Vin, una ladruncola di strada che viene reclutata da una banda di allomanti skaa, guidata da Kelsier, il cui scopo è provocare una ribellione nell’ultimo impero. Vin ha poteri allomantici ma li usa in maniera inconscia; Kelsier però se ne accorge e la prende sotto la sua ala, insegnandole ad usarli e a controllarli, facendo di lei una “mistborn” eccezionale. Il primo volume racconta la ribellione contro il Lord Reggente mentre i due seguiti sono dedicati alle conseguenze della rivolta. Per evitare spoiler mi fermo qua. I punti di forza della saga sono nei personaggi, nella loro vivida caratterizzazione, nell’ambientazione e nella stessa allomanzia. I mistborn hanno poteri eccezionali, da soli possono vincere decine di persone e i combattimenti fra di loro sono alla stregua di quelli fra super eroi. Nei fantasy ci sono sempre combattimenti ma è difficile trovare autori che sappiano descriverli bene, senza scadere nel generico. Brandon Sanderson li descrive con minuzia, facendo sentire al lettore ogni colpo, ogni mossa, ogni tattica volta a surclassare l’avversario.


Chiudo la rassegna con il romanzo di esordio di Nicholas Eames “I Guerrieri di Wyld: l’orda delle tenebre” (2017), pubblicato in Italia dall’editore Nord. Lo scrittore deve conoscere parecchio i giochi di ruolo perché la loro influenza nel romanzo è nettissima, così come un certo umorismo e distacco ironico tipico dei narratori moderni. In un mondo fantasy dove le compagnie mercenarie sono venerate come rockstar, un’orda di creature malvage sta per distruggere la città di Castia. A difenderla c’è Rose, la figlia di Gabriel, l’ex capo di una banda di avventurieri molto famosa. Il tempo passa per tutti, però, e Gabriel è ora un uomo di mezza età senza arte ne parte, disperato, che chiede aiuto ai suoi vecchi compagni d’arme per salvare la figlia. Ognuno di loro è alle prese con una vita da “civile”, dopo anni di scorrerie nei dungeon contro mostri feroci ma non possono ignorare l’appello del loro vecchio comandante. Uno dopo l’altro rispondono alla chiamata, in particolare Clay Cooper, un ex guerriero in pensione, migliore amico di Gabriel. Clay non vorrebbe ributtarsi nella mischia ma anche lui ha una figlia e capisce cosa sta provando il suo amico, così non gli resta che rimettersi sulle spalle il suo fidato scudo e partire all’avventura. Non dico altro per non rovinare la trama (e perché lo sto attualmente leggendo io stesso) ma il libro è estremamente interessante e divertente; chi come me conosce e pratica i giochi di ruolo troverà inoltre ulteriori motivi per apprezzarlo. Ovviamente anche questo libro è il primo di una saga, di recente è uscito il secondo volume ma non ancora in Italia. Da quello che so, ogni libro dovrebbe concentrarsi su una diversa compagnia mercenaria, quindi possiamo sperare in libri sostanzialmente autoconclusivi.

Per adesso finisce qui, spero di avervi dato dei suggerimenti utili per qualche lettura estiva. Alla prossima.

domenica 1 luglio 2018

Numenera: la recensione definitiva


Qualche anno fa, qui sul blog, scrissi un articolo dedicato al gioco di ruolo Numenera, di M. Cook. Era un buon pezzo ma, all’epoca, non lo avevo ancora giocato e pertanto mi limitai a descrivere le meccaniche di base e ad offrirvi le mie sensazioni. Oggi, dopo quasi un anno di campagna, ritengo di poter offrire un punto di vista più solido e completo, soprattutto più aderente alla realtà del tavolo di gioco. Non mi ripeterò con la descrizione del sistema, se siete curiosi (ri)leggete il vecchio articolo; in questo pezzo voglio analizzare i pro e i contro di Numenera (e, per estensione, del Cypher System, il suo motore di gioco), con tanto di sintesi finale.


Partiamo dai pro. Un personaggio viene creato dalla combinazione del “tipo” (una sorta di classe), del “descrittore” (un aggettivo come astuto, sveglio, determinato etc.) e del “focus” (il campo in cui un personaggio eccelle davvero). C’è una buona varietà di scelta, con un grado di personalizzazione soddisfacente. I giocatori possono diversificare i loro personaggi scegliendo fra decine di opzioni: due personaggi dello stesso tipo (ad esempio due glaive, cioè guerrieri), selezionando un focus e un descrittore diverso, riusciranno a distinguersi l’uno dall’altro facilmente. Il focus, in particolare, riflette la specializzazione del personaggio e da regolamento non dovrebbero esistere due personaggi con lo stesso focus. La varietà di scelta è buona, le combinazioni interessanti e per fortuna il gioco non si presta facilmente agli abusi tipici del power play, perché ottenere un potere significa rinunciare ad un altro, evitando così pericolosi accumuli.  Questo non significa che tutti i personaggi saranno equivalenti in termini di potere, c’è differenza fra avere il focus “cavalca il fulmine” e il focus “vive nelle terre selvagge” ma è una cosa voluta. I focus non servono solo a dispensare poteri ma offrono una descrizione del personaggio anche in chiave narrativa. Un focus dedicato al combattimento non può essere uguale ad uno basato sulle interazioni, ma questa è una decisione che viene rimessa al giocatore e al tipo di personaggio che vuole interpretare.

Un altro punto di forza del gioco è nella gestione e creazione degli antagonisti dei personaggi, dalle creature ai personaggi non giocanti. Poiché una creatura viene definita principalmente dal suo livello (dal quale discendono a cascata tutti gli altri valori), è possibile creare minacce con una facilità irrisoria. Stabilito il livello, basta personalizzare la creatura con poteri e tratti unici in base a ciò che avete in mente, senza usare tabelle o regole complicate. Ciò è davvero prezioso per il Game Master, che in sede di progettazione di un’avventura avrà bisogno di pochi minuti per decidere questi dettagli e potrà dedicarsi maggiormente agli intrecci della storia. Da questo punto di forza ne scaturisce un altro: il fatto che nel gioco ogni cosa abbia un livello (oggetti, nemici, trappole, tutto ciò con cui i personaggi possono interagire, insomma) rende ogni entità direttamente confrontabile e facile da utilizzare. Capita spesso, nei giochi di ruolo, di non trovare la regola adatta ad una certa situazione e che il Game Master debba improvvisare una soluzione. In Numenera queste situazioni si risolvono rapidamente: basta assegnare un livello che rappresenta l’ipotetica difficoltà dell’azione, e il gioco può proseguire.


Un altro punto a favore del sistema sono i crypto. Si tratta di oggetti mono uso che conferiscono al personaggio un qualche tipo di potere. Un crypto può curare, offrire potenziamenti in attacco o in difesa, può essere un esplosivo, un traduttore universale, può aprire portali nello spazio-tempo, insomma può conferire qualunque capacità. Un crypto può essere molto potente ma il fatto che si tratta di oggetti che funzionano solo una volta ne impedisce l’abuso. Il gioco è basato sul ricambio continuo dei crypto, il Game Master può offrirli ai giocatori come ricompensa immediata senza preoccuparsi troppo del bilanciamento, e questo proprio perché sono ad uso singolo. Pensate ad un gioco come D&D: se mettete un oggetto magico troppo potente in mano ad un giocatore, e il suo uso inizia a sbilanciare il gioco, avrete un bel problema da risolvere, perché l’oggetto è permanente. Certo, potrebbe venire rubato, perso o chissà cosa, ma è chiaro che il giocatore vivrebbe la cosa come un depotenziamento volontario da parte del Master. In Numenera questo problema può esserci con gli artefatti, che sono l’equivalente degli oggetti magici permanenti, ma non con i crypto, molto più comuni e facili da trovare. Anche se il Master compie un errore, sarà un errore che al massimo influenzerà una singola sessione, non tutta la campagna.

L’ultimo punto a favore di Numenera sono le semplificazioni che il gioco utilizza per mantenere il sistema snello e veloce durante la partita. I danni fissi delle armi, le regole sulla distanza e in un certo senso il fatto che tutto abbia un livello e sia misurabile, sono espressioni di un chiaro intento di design, cioè quello di non appesantire il sistema e favorire un tipo di gioco che non si arena nella ricerca della regola mancante.

Veniamo adesso ai contro. La semplicità del sistema, appena citata come un pregio, è al tempo stesso anche un difetto. L’altra faccia della medaglia della semplicità è la banalità, il trattare cose diverse tutte allo stesso modo e questo rischio è presente in Numenera. Non è solo una questione di realismo (il Cypher System non è realistico né cerca di esserlo), è il fatto che da certe semplificazioni scaturiscono delle regole che talvolta fanno storcere il naso. Ad esempio, una creatura infligge il suo livello come danno e lo fa a prescindere dal fatto che sia armato o meno. Durante una partita i miei giocatori disarmarono un cavaliere che impugnava una sorta di spada laser, confidando nel fatto che senza di essa sarebbe stata indifesa. Per le regole, però, era irrilevante, quella creatura avrebbe continuato ad infliggere il suo danno: che attaccasse con i pugni, con i calci o con un bazooka, sarebbe stato esattamente la stessa cosa. Non proprio un bel risultato dal punto di vista della narrazione e della coerenza!


Altro problema del gioco è la sua macchinosità nel momento di risolvere un’azione. Nella maggior parte dei giochi di ruolo, quando si deve compiere un’azione, il giocatore tira un dado, somma o sottrae qualche modificatore e scopre se l’azione ha avuto successo o meno nel giro di pochi secondi. In Numenera no, perché, in genere, in ogni azione il giocatore deve spendere punti da una riserva, calcolarne il costo, ottenere uno sconto per via dell’Attitudine, verificare se ha altre capacità che abbassano o alzano la difficoltà dell’azione e solo allora può tirare. Questo si osserva soprattutto in combattimento. Perché questo problema? In Numenera esiste la Tenacia, una caratteristica che serve ad abbassare la difficoltà delle azioni. Tale uso ha un costo e va calcolato ogni volta, un costo che spesso si somma ad un potere che il personaggio utilizza. Molti giochi di ruolo usano caratteristiche simili alla Tenacia, cioè un qualcosa che ti fa superare temporaneamente i tuoi limiti. La differenza, però, è che tale potere, in genere raro e limitato negli altri giochi, in Numenera viene utilizzata costantemente, pena il quasi sicuro fallimento delle azioni. Questo difetto non è immediatamente evidente, al primo o al secondo rango (l’equivalente del livello) i personaggi hanno poca Tenacia e pochi poteri e fare i calcoli non porta via molto. Salendo di rango, però, il problema si manifesta in tutta la sua evidenza: i giocatori devono scegliere fra molti poteri e possono variare i livelli di Tenacia da applicare, tutte scelte che rallentano il gioco. Considerate inoltre che, da regolamento, non si dovrebbe dire ai giocatori il livello della difficoltà dell’azione, un fatto che porterebbe ad ulteriori ipotesi, calcoli e sicure perdite di tempo (motivo per cui, nella mia campagna, ho preferito ignorare questa regola). Ho visto giocatori esperti perdere minuti nel decidere come e quanti punti spendere, per scoprire poi che i calcoli erano pure sbagliati e andavano rifatti!

Un’altra cosa che mi lascia perplesso del Cypher System è il fatto che il Master non tira mai i dadi, lo fanno sempre i giocatori. In se questo non sarebbe un difetto, se vi fosse dietro uno scopo. Il problema è che tale scelta di design sembra assolutamente fine a se stessa, una cosa che colpisce, da spacciare come novità per invogliare l’acquirente ma che concretamente non serve a nulla. Innanzitutto, non fa risparmiare tempo: il fatto che il Master non tira i dadi non elimina un passaggio di gioco, semplicemente tocca ad un giocatore tirarli al suo posto. Se poi si va a vedere cosa comporta questa scelta, ci si accorge che il giocatore che tira i dadi al posto del master rientra nel problema già osservato dell’eccessiva semplificazione, ovvero della coerenza di fondo del sistema che rischia di finire in pezzi. Il giocatore tira i dadi per attaccare, può colpire o può mancare, come è normale che sia. Il giocatore tira i dadi per difendersi (dato che il Master non può tirare i dadi per attaccare), quindi il presupposto è che l’avversario normalmente ti colpisce sempre! Altro esempio: il giocatore colpisce il nemico con un’arma avvelenata. Dato che il Master non può tirare per la resistenza del nemico, è il giocatore che deve tirare per vedere l’efficacia del veleno, spendendoci magari punti con la Tenacia, come se l’impegno del personaggio, nel mondo di gioco, potesse influenzare l’agire di un veleno, il che è ridicolo!
Questo difetto ci porta così all’ultimo problema del gioco, ovvero l’interazione fra personaggi non giocanti. Se il Master non può tirare i dadi, cosa succede quando due personaggi non giocanti si affrontano? La risposta è che non lo sa neppure il gioco, che si limita a dare alcuni consigli (peraltro contraddittori) che di fatto non portano a nulla. Non far tirare dadi al Master si rivela alla fine una scelta infelice di design, una meccanica che non offre nessun beneficio bensì tanti svantaggi. 

Siamo alla fine della recensione. Numenera (e il Cypher System) ha parecchi punti di forza ma l’impressione finale è che si perde prima di arrivare al traguardo. Poteva essere il gioco del decennio, invece al massimo è il gioco dell’anno (titolo in effetti vinto nel 2015 a Lucca Comics & Games) e difficilmente potrà andare oltre. L’ambientazione è interessante, i giocatori possono trovare soddisfazione nello sviluppare e personalizzare i loro personaggi, il Master viene decisamente facilitato nella gestione e nella creazione delle avventure. Le pecche del gioco sono in certe semplificazioni grossolane e in una inutile scelta di design. Per quanto riguarda la semplificazione, c’è chi la apprezza e chi la evita, è solo una questione di gusti. Per il resto, invece, è un vero peccato perché il Master che non tira i dadi non serve a nulla, mentre la meccanica di risoluzione delle azioni, basata sul continuo calcolo di punti da spendere, toglie proprio quella immediatezza che il resto del gioco cerca e trova con facilità. Se avete giocatori novizi o che si perdono con calcoli matematici, questo non è il gioco adatto a voi. Se preferite meccaniche più tradizionali, se non amate le semplificazioni che sconfinano nel pressapochismo, se volete salvaguardare il livello minimo di verosimiglianza che un gioco (sia pur fantastico) dovrebbe avere, lasciate stare. Se queste cose non sono per voi un problema, se l’ambientazione di Numenera vi piace davvero tanto, allora fatevi avanti.